Settembre 1544, muore a Torino il poeta Clément Marot

Forse, non tutti i torinesi sanno che il duomo della loro città ha ospitato la tomba di uno dei più grandi poeti rinascimentali francesi, Clémént Marot (1496-1544), il poeta preferito da re Francesco I, venuto a rifugiarsi a Torino nei tempi bui delle guerre di religione.

Aedo di corte a Parigi, visse intensamente e pericolosamente, in fuga perenne dai mariti gelosi e dalla inquisizione. Fu l’iniziatore di un genere poetico, il “blason” ed il conseguente “contre-blason”.

Nel “blason”, il poeta decanta un particolare anatomico del corpo femminile dell’amata, tessendone l’elogio in maniera mirabile. Ma se la donna rifiutava di essere amata o tradiva il poeta, ecco pronto il “contre-blason”, con il un particolare anatomico del corpo femminile veniva preso come bersaglio per evidenziarne ferocemente tutti i difetti.

Colpita dal suo talento poetico, Margherita d’Angoulême, sorella di Francesco I, lo volle come suo “Valet de Chambre” ed egli le indirizzò subito un “blason” amoroso, benchè ella fosse moglie del duca di Alençon. Non pago, corteggiò con i suoi “blason” Diana di Poitiers e lei non lo respinse.

Mentre era “Valet de Chambre” di Margherita, tradusse Virgilio e Luciano di Samosata e offrì al re una raccolta di versi, “Le Temple de Cupido, fait par Maistre Clément Marot, facteur de la Royne”, che lui gradì moltissimo.

Entrato nelle grazie del sovrano, lo seguì alla battaglia di Pavia, dove però Francesco I subì una sonora sconfitta, venendo catturato e tenuto recluso per oltre un anno a Madrid. Anche Marot, fu ferito e preso prigioniero in quella circostanza, ma sfuggì agli spagnoli e riuscì a riparare in Francia dove riprese a comporre carmi e a corteggiare dame.

Una certa Isabeau, colta da gelosia, si vendicò raccontando alle autorità religiose di averlo visto mangiare del lardo in Quaresima. Bastò questo per farlo incarcerare e torturare come sospetto di eresia. Egli protestò invano la sua innocenza: soltanto quando, l’anno dopo, Francesco I fu rilasciato dalla sua prigionia dopo aver pagato un pesantissimo riscatto, Marot venne liberato. La detenzione non lo aveva mutato: subito si invaghì di un’altra giovane donna, e le dedicò un “blason”. Immediatamente dopo, commise un’azione avventata tentando di strappare ai gendarmi un uomo che riteneva innocente e così ritornò in carcere. Riuscì allora a far pervenire al re una sua epistola in versi, l’ “Epistre de Marot envoyée au Roy” grazie alla quale fu rimesso in libertà.

Nel 1532 cadde gravemente malato, riuscì a sopravvivere, poi indirizzò una epistola al re, l’”Epistre au Roy, par Marot estant malade à Paris”, alla quale il re rispose nominandolo suo “Valet de Chambre”, con una rendita di cento scudi d’oro e la promessa di altri favori. A questo punto l’avvenire di Marot sembrava dei più favorevoli, e lo sarebbe stato se la Francia non fosse stata dilaniata dall’odio tra religioni. Lui, uomo libero, non volle schierarsi contro i protestanti, ai quali riconosceva la fondatezza di alcune critiche alla Chiesa cattolica, ma, a quei tempi, agire in questo modo, era molto pericoloso: fu guardato immediatamente con sospetto e ostilità, mentre libri e scritti gli venivano sequestrati. Ad aggravare la sua posizione, fu la sua idea, per ringraziare il Signore di essere guarito, di tradurre in francese il “Salmo VI” della Bibbia. La Chiesa, che non tollerava traduzioni bibliche se non da lei approvate, gli fu immediatamente nemica. Le circostanze però congiuravano contro: nel 1534, invitato a un matrimonio da Margherita di Navarra, si mise a discutere con un altro poeta presente, François Sagon, di questioni teologiche e, poiché quest’ultimo lo accusava di essere protestante nell’animo, vennero alle mani. Quando Sagon stava per sopraffarlo, Marot estrasse un pugnale. Sagon fuggì, ma la nomea di simpatizzante ugonotto traditore della fede cattolica si era sparsa. Qualche mese più tardi, quando scoppiò l’affare dei “Placards”, egli dovette fuggire dalla Francia.

I “Placards” furono dei manifesti contro la Chiesa cattolica e il suo modo di gestire l’Eucarestia, affissi di notte dai protestanti in alcune città francesi. Il fatto suscitò grave scandalo e fu promesso un premio a chi avesse fornito informazioni per fare arrestare gli autori del gesto, che furono poi bruciati in piazza sul rogo. Montando l’odio antiprotestante, il povero Marot riparò in esilio a Ferrara, alla Corte estense, ma qui ricadde nel vecchio vizio e, dopo aver indirizzato dei “blason” amorosi alla Duchessa, dovette scappare a Venezia per sfuggire alle ire del marito geloso Ercole II d’Este.

Calmate la acque in Francia, Francesco I lo richiamò a corte. Questa volta egli, per non avere sorprese, si recò a Lione e fece una solenne abiura della religione protestante nelle mani del cardinale di Tournon. Ritornato a Fontainebleau, nel 1541 riprese la traduzione in francese dei Salmi, che piacque moltissimo a corte, ma subito i teologi della Sorbona gli si scagliarono contro, accusandolo di aver alterato la Bibbia. Ricominciò così un’atmosfera pesante: quando nel 1542 Francesco I riprese a perseguitare i luterani, Marot non indugiò oltre, lasciando Parigi per rifugiarsi nella Ginevra di Calvino. Qui avrebbe potuto stare bene, ma egli pensò bene di sedurre una donna sposata, la moglie del proprio oste. Fu condannato a morte, ma Calvino stesso gli fece commutare la pena in frustate. Si spostò dunque a Chambery, mentre i francesi, guidati dal Conte di Enghien, riportavano una grande vittoria contro gli spagnoli, a Ceresole d’Alba. Marot scrisse di getto la “Salutation du camp de Monsieur d’Anguien à Sirisolle“, e raggiunse l’esercito francese a Torino.

Qui pose la sua ultima residenza, continuando a corteggiare dame e a comporre versi, e quivi morì nel 1544 in completa miseria, a soli 48 anni. Il suo ultimo “Contre-Blason” fu indirizzato contro una prostituta torinese, che pretendeva dieci scudi per concedere i suoi favori, mentre Marot ne aveva in tasca solo sei. Nonostante questa fine, la sua fama di poeta era tale che fu concesso che egli venisse sepolto nel Duomo di San Giovanni, dietro una lapide che riportava il suo epitaffio, composto dal suo amico, Léon Jamet: «Ici devant au giron de sa mère, / Git des François le Virgile et l’Homère. / Ci est couché & répose à l’envers / Le non pareil des mieux-disants en vers. / Ci git celui qui peu de terre coeuvre / Qui toute France enrichit de son œuvre. / Ci dort un Mort qui toujours vif sera, / Tant que la France en François parlera. / Bref, git, repose, & dort en celui-ci, / Clement Marot de Cahors en Querci» ovvero «Qui, davanti al grembo di sua madre, / Giace dei Francesi il Virgilio e l’Omero. / Qui è disteso e riposa a rovescio / il senza pari tra i fini dicitori in versi. / Qui giace, ricoperto da un velo di terra, / Colui che con la sua opera ha onorato la Francia intera / Qui dorme un morto che sarà sempre vivo/ Sino a che in Francia si parlerà francese. / Dunque, giace, riposa e dorme costì, / Clement Marot di Cahors nel Querci».

 

 

 

 

 

Autore articolo: Paolo Benevelli

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