Quattro passi nell’archeologia tra Capua e Santa Maria Capua Vetere
“Finchè rimarrà in piedi il Colosseo, durerà anche Roma; quando il Colosseo cadrà, cadrà anche Roma; e, se cadrà Roma, perirà anche il mondo”. Così parlava Beda nel secolo VIII di quello che è il simbolo di Roma.
C’è un altro anfiteatro però che può essere eretto a simbolo della romanità. E’ quello dell’antica Capua, oggi Santa Maria Capua Vetere, che, con la sua ellissi contenente un asse lungo centosettanta metri ed un asse corto di centoquaranta, è secondo per grandezza solo all’amphiteatrum colisaeum.
Fu costruito da una colonia conquistata da Augusto dopo la battaglia di Azio e inaugurato nel 155 dopo Cristo da Antonino Pio, ma forse si tratta della trasformazione di uno spazio più antico collegato alla famosa scuola di gladiatori che dette i natali alla rivolta di Spartaco nel 73 avanti Cristo. Più tardi finì distrutto dai Vandali di Genserico ed ancora saccheggiato dai Saraceni.
A partire dal periodo della dominazione sveva divenne cava di estrazione di materiali lapidei reimpiegati nella costruzione degli edifici della città. Parzialmente scavato tra il 1811 ed il 1860, fu definitivamente liberato dagli enormi ammassi di terra tra il 1920 ed il 1930.
Modellato da quattro piani esterni che toccavano l’altezza di quarantasei metri, affascina con la sua magnificenza. Un tappeto ligneo ne copre l’intricata struttura sotterranea in cui il visitatore potrà liberamente addentrarsi. Ciò che si stende sotto lo sguardo di chi ammira è quanto resta di quattro ordini di spalti, di gallerie interne ed imponenti entrate.
L’anfiteatro era dotato di quattro ingressi principali e poteva ospitare fino a 60.000 spettatori. Dei suoi quattro piani possiamo oggi ammirare solo il primo ed una piccola parte del secondo, mentre le gradinate sono andate quasi completamente distrutte. I sotterranei, invece, ben conservati sono, invece, collegati da un insieme di dieci corridoi con volte a botte, sono costituiti da settantasei archi in mattoni rosso scuro e servivano da spogliatoi e depositi.
Poco rimane anche dei busti inseriti nelle chiavi di volta raffiguranti per lo più divinità: dei venti busti rinvenuti, solo alcuni sono ancora nell’anfiteatro, altri sono stati trasportati al Museo e al Palazzo Municipale di Capua e al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Sul canto destro di chi accede, attira l’attenzione un corridoio di are e basi iscritte, marmi incisi, capitelli e frammenti di roccia. Seguendolo il visitatore entra nell’Antiquarium che dell’Anfiteatro conserva iscrizioni, ceramiche, elementi decorativi e statue, ma che, dal 2003, presenta un vero e proprio “Museo dei Gladiatori” ricco di costumi e armature d’epoca, scudi bronzei ed elmi. Affascinante è poi l’arena che ripropone un combattimento tra quattro gladiatori ed un leone con l’incalzare di una voce narrante. Prima di uscire è interessante soffermarsi sul plastico ben definito che illustra l’anfiteatro nella sua originaria fattezza.
Ancora a Santa Maria Capua Vetere, lasciamoci alle spalle l’Anfiteatro ed, imboccata Via Morelli, sulla sinistra entriamo in Vicolo Mitreo. Il perchè di questo nome è di facile comprensione. Qui, dopo pochi metri, un moderno parallelepipedo in laterizio nasconde uno dei più bei gioielli dell’antica Capua, costruito tra il II e il III sec. dopo Cristo.
Portato dai soldati, da mercanti o sviluppatosi autonomamente tra prigionieri di guerra divenuti gladiatori, il culto del dio Mitra aveva in questo luogo il suo tempo capuano.
La divinità vi appare nelle forme antiche poco scalfite dal tempo. Mitra indossa un abito di principe persiano ed è ritratto nell’atto di uccidere un toro, basta scendere gli scalini e percorrere il vano che precede quello principale, lo spelaeum, riservato ai soli uomini iniziati. Questo, lungo circa 12 metri e largo forse 4, conserva ancora alle pareti laterali i praesepia, due fila di banconi in muratura, dotati di piccole vasche per le sacre abluzioni, dove si sedevano gli iniziati al culto. Su tutto primeggia la nota tauroctonìa del dio dal berretto frigio che fa del Mitreo di Santa Maria Capua Vetere, uno dei maggiori esempi tra i rari santuari mitraici con decorazione pittorica.
Assistono alla scena altre figure, dadofori, un serpente, il sole, la luna, l’oceano, la terra e gli arcieri divini Cautes e Cautopates. Spicca all’occhio un seminìo di stelle a sei punte verdi e rossastre, forse in origine coperte di gemme preziose oggi trafugate, che trapunta la volta a botte posta a copertura del tempio.
E’ quanto meglio rimane di un ciclo di affreschi di pregevole fattura che scandiva le cerimonie religiose e, nelle sue tracce odierne, continua ad illustrare i riti cui prendevano parte gli adepti. Un rilievo ritraente Amore e Psiche è poi affisso alla parete, sicuramente piazzato lì in tempi recenti; la pavimentazione in cocciopesto è ben conservata.
Rinvenuto casualmente nel 1922, nel corso di alcuni scavi, il Mitreo era situato nei pressi dell’antico Capitolium, foro principale della metropoli capuana.
Questo è anche uno dei non rari esempi in cui, l’ipogeo, nelle forme di una cripta seminterrata, sostituisce la caverna più frequentemente associata a Mitra, e sviluppa la simbologia della discesa nella terra e del rituale dell’iniziazione come “morte allegorica” e recupero della coscienza primigenia.
In ultimo, a Curti, sul lato sud dell’Appia, ad Est di Santa Maria Capua Vetere, a trecento metri dalle “Carceri vecchie”, sorge quella che forse è la tomba romana più nota tra i mausolei campani. E’ chiamata “Conocchia”, nome suggerito dalla sua forma che ricorda appunto la conocchia usata per filare, ed è una vistosa testimonianza della munificenza dell’antica Capua. Curti infatti era in origine un quartiere dell’antica città romana da cui si rese autonoma nell’Ottocento.
La struttura della “Conocchia” si scandisce su tre corpi sovrapposti, il primo dei quali funge da podio quadrilatero contenente la camera sepolcrale del tipo a colombario.
Vi si innalzano un corpo quadrangolare con agli angoli quattro colonne e nicchie su ogni facciata, poi un tamburo circolare anch’esso con nicchie. Tutta l’opera è costituita da materiale cementizio con decorazioni che richiamano l’idea di tanti reticoli.
La vediamo nelle forme restaurate dai Borboni come ci ricorda l’epigrafe che vi fu apposta: “Me superstitem antiquitatis molem/senio confectam et iam iam ruituram/rex ferdinandus IV, pater patriae,/ab imo suffultam reparavit” che sta per “Me superstite mole dell’età antica, percorsa dal corrompimento e ormai sul punto di rovinare, il re Ferdinando IV, padre della patria, rinvigorita delle basi restaurò”.
In tutto le nicchie sono undici ed erano destinate ad accogliere le urne dei defunti. Incerta ne è la datazione, forse vi fu sepolta Flavia Domitilla, matrona romana vittima delle persecuzioni anticristiane di Domiziano, ma si è anche scritto che essa accolse le ceneri di Appio Claudio il Cieco, fondatore della Via Appia nel 312 a.C.
Chi si trovi in prossimità di questa tomba, perchè diretto alla Reggia di Caserta o all’anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere, non può non cogliere l’occasione per farvi tappa, una brevissima sosta per scattare qualche foto e poi ripartire, per respirare ciò che del lontano passato resta nel presente e che invece poteva sfuggire al guidatore inavveduto.
A Capua, invece, consigliamo è auspicabile una visita al Museo Campano che conserva, tra i suoi tanti tesori, la testimonianza di un antico culto alla maternità.
Quattro sale, infatti, serbano le sculture che ornavano il santuario della Matuta, la “Dea Madre”, forse frutto di una stratificazione di culti diversi legati da una devozione a divinità femminili della fertilità. Il luogo di culto era posto sull’Appia, dopo San Prisco, e si sviluppò in età arcaica accogliendo fitte schiere di pellegrini sino alla metà del I secolo a. C..
Nella religione pagana dei popoli italici, Mater Matuta era la dea del mattino o dell’aurora e quindi protettrice della nascita degli uomini e delle cose.
Questo tipo di culto, forse praticato dagli strati medio-bassi dell’ambiente locale agricolo e conservatore con una propensione a nuclei familiari ampi, dette vita a produzioni di sculture in tufo, con evidenti influssi italici e greci, raffiguranti figure femminili assise in trono, solenni maternità con bambini in grembo, spesso chiuse in forme rigidamente geometriche.
Le linee sono semplici, sembra che le figure femminili raffigurate abbiano vissuto lo sfiancamento di concepimenti plurimi. Molte di esse reggono a due a quattro a sei fino al numero di dodici, gli infanti in fasce sugli avambracci tesi e sul grembo.
Sono immagini molto distanti dall’eleganza dell’arte di influsso greco, le superfici sono ruvide, i volumi torniti, i tratti rozzi. “Chi ricorda – scriveva Amedeo Maiuri – innanzi a queste madri che null’altro esprimono se non fatica e il dolce peso della maternità, le Veneri ignude e tutta la leggiadra favola dell’amore delle pitture pompeane? Scene e motivi da rococò e da minuetto, innanzi a un corteo sacro di popolane ammantate e muoventi in preghiera verso un eremo alpestre”.
Le “Madri” si situano cronologicamente in un arco di tempo che va dal VI al II sec. a.C. e rappresentavano “ex voto”, un’offerta propiziatoria e l’espressione di un ringraziamento per la concessione del sommo bene della fecondità. Non c’è al mondo una collezione simile.
Articolo: Angelo D’Ambra
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