Proclamazione della Repubblica romana
Al diffondersi delle disastrose notizie provenienti dalla Lombardia, esplosero gravi disordini a Roma. Qui il richiamo delle truppe pontificie voluto da Pio IX aveva deluso i liberali e creato malumori attorno al papa. Neppure la nomina a primo ministro di Pellegrino Rossi, uomo di grande ingegno e noto per i suoi sentimenti progressisti, valse a calmare gli animi. Il fermento popolare andò crescendo di giorno in giorno, fino al 15 novembre quando Rossi venne pugnalato a morte mentre si recava ad inaugurare il nuovo parlamento. Spaventato, Pio IX lasciò la città travestito da prete e trovò rifugio oltre confine, a Gaeta. Fu allora che i liberali dichiararono decaduto il potere temporale e, il 9 febbraio 1849, proclamarono la Repubblica romana. Felice Venosta (Roma e i suoi martiri: notizie storiche) narra della nascita della repubblica.
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I provvedimenti per conservare il governo costituzionale andarono, come i tentativi delle Deputazioni, falliti per opera dei profughi di Gaeta. Pio IX non riconobbe la Giunta, e dichiarò ribelli le Camere. Lo sdegno della pubblica opinione non ebbe più freno all’insistenza forsennata del principe. Le provincie si agitarono, e minacciarono distaccarsi dalla capitale, se, dopo tanti inutili tentativi di conciliazione, s’indugiasse ancora a convocare un’assemblea generale che fosse la interprete vera dei bisogni e della volontà del paese.
Per rinunzia del vecchio Corsini, Galletti e Camerata entrarono a far parte coi ministri di una Commissione provvisoria di governo, la quale ad evitare l’anarchia, mentre buona parte dei Deputati vilmente fuggivano, e ai pochi rimasti mancava quel coraggio che chiedevano i tempi, dovette recarsi in mano la somma delle cose, e, chiuse il 29 dicembre le Camere, intimare all’istante i comizi per eleggere con suffragio universale un’assemblea Costituente di Rappresentanti del popolo. Venne decretato il 21 gennaio ai comizi, e il 5 febbraio all’apertura dell’assemblea. Era base alla legge il voto diretto; ogni cittadino ventenne, elettore; ogni venticinquenne, eleggibile.
La proclamazione della Costituente veniva salutata in tutte le terre romane collo sparo delle artiglierie, col suono delle campane a festa, con luminàrie, con osanna, con cantici. In Roma, il popolo, le guardie nazionali e le milizie regolari, preceduti da bandiere, da torce a vento e da musicali concenti, dalla Piazza di Venezia si recavano al Campidoglio, gridando “Viva la Costituente Romana! Viva l’Italia! Viva l’Indipendenza!”.
I liberi vessilli erano collocati intorno alla statua equestre di Marco Aurelio, dal cui piedistallo l’abate Ramboldi, dopo aver letto alla moltitudine il decreto, pronunciava queste solenni parole: “Popolo di Roma, tu sei chiamato ad una grande missione, e certo l’unica dopo che i tuoi padri, percossi dal destino che ne invidiava la gloria e la grandezza, scendevano in faccia di una prima barbarie da questa sacra montagna. Tu sei chiamato, se il vuoi, ad infondere la potenza vitale alla nostra infelicissima Italia, a ricomporne le sparse membra che si vogliono disgregate ed oppresse dalle nere congreghe e dai despoti. Io, sacerdote del Cristo, sento tutta la coscienza di chiamarti dal Campidoglio alla libertà ed alla indipendenza, perché il principio di questo tuo diritto vive eterno nell’Evangelio. Frattanto sia uno e concorde il grido: – Viva la Costituente Romana, iniziatrice della Costituente Italiana!”.
I rifugiati di Gaeta cercarono a tutt’uomo con turpi artifizi di impedire o funestare la convocazione di quell’assemblea. Un manifesto del Pontefice, fra gli altri mezzi, fu il primo del 1849 diramato, con cui si comminavano le censure ecclesiastiche a tutti quelli che avessero preso parte al grande atto cittadino. Tale fu sempre il governo dei preti; confondendo i mondani interessi di regno colla mite religione di Cristo, ogni qualvolta li scorgeva minacciati, brandì le armi spirituali contro quelli che desideravano nei sacerdoti le dottrine del Divino Maestro, e rovesciò sul loro capo maledizioni e scomuniche. Ma erano ormai queste armi senza veruno effetto per l’uso e l’abuso che se ne fece. Roma accolse la scomunica con disprezzo; sapeva bene che non poteva dispiacere a Dio, se, abbandonata vilmente dal principe, cercasse modo e via di stabilirsi in governo ordinato e normale. Le elezioni seguirono con una calma, con una dignità ed un ordine quali soltanto si riscontrano in un paese da anni assuefatto all’esercizio del suffragio universale. I giorni del voto e dello scrutinio furono giorni di festa per le città dello Stato; e quella pace, quella placidezza e quella concordia, che dappertutto regnarono, formarono la rabbia di quelli che, colla fuga del Pontefice, speravano lasciare al paese un’eredità di delitti e di sangue , e mostrarono all’Europa quanto fosse maturo il popolo di Roma alle più larghe istituzioni.
Tale fu il pontificato di Pio IX dal dì della sua elezione a quello della fuga… Un’Amnistia e una Consulta, come i nostri lettori lessero, furono gli atti spontanei di Pio IX: le altre concessioni, strappate soltanto dalla paura. Ora si vedrà come, defunte le inique speranze, egli, il rappresentante del Figlio di Maria, apostolo della pace, il banditore delle incruenti dottrine dell’evangelo, battesse alle porte dei gabinetti d’Europa: — luterani, scismatici, turcbeschi, repubblicani, costituzionali, dispotici, per domandare l’anti-cristiana, l’anti-nazionale elemosina d’un corpo di truppe che corresse a bombardare la sua terra nativa, ad uccidere i propri fratelli, ad opprimere quelli che la Provvidenza gli aveva dato figliuoli, per ripristinare, fra tanta civiltà di secolo, l’anacronismo politico che chiamasi governo temporale dei Papi. Pur troppo anco a’ nostri preti ben calza i versi del fiero Ghibellino:
“Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento E ch’altro é da voi all’idolatre Se non ch’egli uno e voi n’orate cento?”
“Ahi Costantin di quanto mal fu maire Non la tua conversion, ma quella dote Che tu facesti al primo ricco patre!”
Ferace terreno fu il nostro all’albero di libertà; piantato appena, vi attecchì e diede frutti preziosi. Malgrado il turbinìo dell’anatema e le maligne arti dei preti e consoci, fatte moderate dal proprio vigore , le popolazioni romane procedevano alacri e franche sulla via dei riconquistati diritti. Non terrori, non agitazioni, non influenze illegalmente esercitate per ottenere propizi suffragi si verificarono nel di della votazione pei candidati della Rappresentanza popolare; la emissione delle schede fu pacifica, grave, maestosa. Quell’atto cotanto meraviglioso fu d’ottimo augurio per l’avvenire. I duecento nominati all’alto ufficio della sovranità da tre, da quattro e cinquemila voti ognuno, erano cittadini probi, onesti, intelligenti, amatori caldissimi dell’Italia: parecchi, patrizi, o uomini di censo ; molti, professori, o avvocati; altri, medici, o commercianti; alcuni, soldati d’ogni arma , i quali sui campi della Lombardia e della Venezia avevano date non dubbie prove di valore e di fede.
Il giorno 5 febbraio, al mezzodì, quanti fra quei Deputati erano già in Roma, si recavano in Campidoglio, ove incominciava ad adunarsi il Parlamento sovrano. Solenne era la cerimonia, solenne il luogo ove compivasi; imperocché eretto sui ruderi dell’antico Campidoglio. Tutto era festa colà. Nella gran Piazza, all’ingiro, ornati delle bandiere dei quattordici rioni della grande città, erano scritti, su trofei coronati d’alloro, i nomi dei Rappresentanti del popolo. Le vie adiacenti, sin dall’alba, erano gremite di gente romana e delle provincie; sui volti di tutte quelle persone vedevi quella serena fidanza dell’uomo che ha coscienza della libertà.
Dal Campidoglio, i Rappresentanti traevano al palazzo della Cancelleria , pur assegnato alle tornate dell’assemblea. Procedevano essi, a piedi, gravemente, colla ciarpa tricolore ad armacollo, sfilavano giù pel Corso, per la via dei Borghesi e della Scrofa, e incedevano nella sala parlamentare, le cui tribune erano stipate di popolo, che, con religioso silenzio, contemplava quella patria cerimonia. Un momento dopo entravano i membri del governo provvisorio: avvocato Carlo Armellini, Muzzarelli, Galeotti, Mariani, Sterbini, Campello. — L’ Armellini, ministro dell’interno, saliva alla ringhiera, e riandava, in un lungo discorso, le vicenda politiche dal 10 novembre in poi, e finiva con queste belle parole:
“Voi siedete , o cittadini, fra i sepolcri di due grandi epoche. Dall’una parte vi stanno le rovine dell’Italia dei Cesari, dall’altra le rovine dell’Italia dei Papi. A voi tocca elevare un edificio che possa posare su quelle macerie, e l’opera della vita non sembri minore di quella della morte, e possa fiammeggiare degnamente sul terreno ove dorme il fulmine dell’aquila romana e del Vaticano, la bandiera dell’Italia del popolo. Dopo ciò noi inauguriamo i vostri immortali lavori sotto gli auspicii di queste due santissime parole: Italia e Popolo”.
Il discorso dell’insigne giureconsulto veniva salutato nel finire dagli unanimi voti del pubblico. L’assemblea romana fino da quel giorno aveva preso un aspetto di letizia che seppe conservare anche nelle terribili strette che sopraggiunsero. Era la letizia che da una coscienza tranquilla, che sa di adempiere a un dovere, e sa di non aver nulla da rimproverarsi.
Tre partiti si presentarono nelle discussioni che incominciarono a impegnarsi: tentare di richiamare il Pontefice, creare un nuovo governo, riferirsene, — continuando a rimanere in sul provvisorio, — alla Costituente italiana. Il primo di questi partiti fu appena sfiorato, poi cadde in tutto il disprezzo che meritava. Infatti a nulla sarebbe valsa quella nuova umiliazione.
In Roma, come si usa in tutti i paesi retti a costituzione, si stabilivano due conferenze preparatorie, l’una in casa Beretta, presieduta dal conte Mamiani, l’altra in casa La-Masa, presieduta dal principe di Canino. Entrambe queste conferenze succedevano con calma e saviezza; nella prima prevaleva la cautela, nell’altra l’ardimento; ma in entrambe era il fermo pensiero di postergare ogni privata passione al bene della patria. Come vedremo la forma repubblicana di governo doveva avere il primato. La Repubblica non fu punto in Roma un’idea preconcetta, non fu un risultato prestabilito, non frutto d’intrigo: la Repubblica emerse spontanea, senza violenze, senza intemperanze, fu, diremmo, il fatto più logico della rivoluzione italiana.
“Le discussioni, scrive Carlo Rusconi, procedevano temperate e il pro e il contro della situazione veniva bilanciato. Che fare? Ecco il problema, ecco l’interrogazione che ognuno muoveva a sé stesso. Richiamare il Papa? Né egli sarebbe venuto, né vi sarebbe stato della dignità dell’assemblea ad esporsi ad un nuovo rifiuto. Rimanere sul provvisorio? Ma tanto valeva allora il lasciarvi quello che già esisteva, tanto era che l’assemblea non si fosse convocata. Inoltre la situazione era grave; il paese rimasto compatto fino allora cominciava ad agitarsi; il governo provvisorio avea esaurite le sue forze e una dissoluzione di tutti gli elementi sociali poteva alla lunga seguitarne; poi, a che tendeva tal provvisorio? Quale era il fine possibile a cui sarebbe arrivato? Aspettar gli avvenimenti e non far nulla, simigliava una politica troppo codarda per un paese che avea già dato 20,000 combattenti per la guerra italiana, e che ad- ogni sagrificio era parato per redimere la nostra nazionalità. Uscir dal provvisorio acclamando pn governo; ma quale? Quello del Papa, provato impossibile, inconciliabile anche colla costituzione? Quello del Papa (non parliamo dell’uomo, ma della istituzione) il cui duplice carattere rifugge da tutto quello che ha sanzionato la civiltà, e per cui l’ideale dei reggimenti sarebbe quello che non concedesse ai sudditi facoltà né di agire, né di pensare ? E abolendo quell’anacronismo di governo, soggetto d’ilarità per tutti i popoli battezzati, qual governo sostituire? Avevano mandato i Deputati per far getto dello Stato e conferirlo ad altro principe italiano? Chiamati per costituire, potevano essi alienare senza uscire da ogni norma di giustizia e di legalità? E se anche il mandato conferito loro non era imperativo, se non potevano essere revocati, non lo distruggevano essi di fatto uscendone, e non erano colpiti fin d’allora di nullità tutti i loro atti? Queste idee dibattute, esaminate da tutti i lati, alle conferenze preparatorie e negli uffici dell’assemblea, tenevano agitati molti che colla decadenza del poter temporale del Papa vedevano sorgere logicamente la Repubblica. Ma la Repubblica come si presentava essa? Quali effetti poteva produrre? Questo nuovo quesito veniva pure attentissimamente esaminato.—La Repubblica, aspirazione allora di pochi in Italia, turbava forse, non v’ era da dissimularselo , quelle relazioni anche officiose col Piemonte, nel quale eran volti gli occhi d’Italia per la guerra dell’indipendenza e da esso si aspettava la riscossa dell’infelice guerra dell’anno precedente. Che sarebbe stato se la proclamata Repubblica, intimorendo quel re per la sicurezza del suo paese, lo avesse fatto desistere’ dalla impresa cominciata? Che sarebbe stato se quel grido di Repubblica, trovando un eco nell’armata piemontese, vi avesse portato l’indisciplina e la confusione? Qual rimorso, pei Deputati, allora , quai rimproveri da tutta Italia che essi accagionerebbe delle catene nuovamente ribadite alla patria? Questo pensiero era tremendo, e può dirsi, senza esagerazione, che turbò la pace di molti Deputati; dall’altra parte che effetti potevano far nascere il grido della Repubblica? Il regno di Napoli conculcato, manomesso da un re che aveva disertata la guerra italiana, anelava di ricomprarsi dall’indegno servaggio, spiava ogni occasione per ristaurare quella libertà che il tiranno avea oppressa. La Repubblica proclamata sul Campidoglio non poteva essa divenire una corrente elettrica che, diffondendosi per tutto il regno, evocasse nei Napoletani tutte le ricordanze del 99? I discendenti di Ruvo e di Conforti, di Caracciolo e di Pagano, i connazionali di Vico non avrebbero palpitato ad un grido, che, emesso cinque secoli innanzi da Cola di Rienzo, avea fatto fantasticar quelle immaginose menti partenopee di tutta la grandezza degli antichi Romani? E fra Sicilia, non ancor debellata, e Roma Repubblica, avrebbe retto l’impuro re, il cui scettro era una verga, la cui arma era una mannaia? Grande speranza era certo questa che si poneva nel Napoletano regno e che il timore bilanciava, che si nutriva pel regno di Piemonte. Quanto al resto d’Italia (Lombardia e Toscana) la Repubblica poteva essere incentivo d’opere, freno non sarebbe stato. Dei paesi esteri, i Deputati dell’assemblea Costituente si erano eziandio occupati. Come avrebbero veduto essi la Repubblica in Roma? La soluzione era presto data. Le corti del Nord, capitanate dall’Austria, eran nemiche di Roma e d’Italia e lo sarebbero state finché un’istituzione liberale vi fosse durata. Alla bilancia dell’odio che ci portano poco peso accresceva per esse la Repubblica. Il Papa volevano instaurato in Roma e assoluto come i suoi predecessori. Gli Stati romani avevano torto di civilizzarsi quando il principe, da cui non possono prescindere, é in un antagonismo perpetuo coi lumi e colla civiltà.
Restava la Francia e l’Inghilterra, l’una che dei nego/i del continente non si mischiava, l’altra che, costituita pure in Repubblica, doveva affiatarsi con un governo, creato identicamente come il suo. Non aveva essa col fatto mostrato che ogni popolo ha diritto di comporre i suoi interni ordinamenti come meglio gli conviene? Non avea essa cacciato Luigi Filippo e fatto tavola rasa d’ogni costituzione largita o subita? E gli Stati romani non avevano questa circostanza attenuante ancora, che essi non avevano fugato il principe, ma che era il principe che se n’era andato? L’Inghilterra (il paese meno repubblicano della terra) avrebbe veduto mal volentieri la Repubblica in Roma, ma certo non l’avrebbe avversata; la Francia rispettosa, come dice l’art. 5 della sua costituzione, delle nazionalità estere., non poteva che simpatizzare pei suoi correligionari italiani, e ciò compensava bene quel po’ d’ odio che avrebbe istillato alle corti del Nord la proclamazione di quella forma di reggimento. Tutto pesato, si affrontava certo una incognita adottando quel partito; ma non era una incognita, anche il persistere in un provvisorio, in fondo al quale non era che la sovversione di tutti gli clementi della societaria dissoluzione, l’anarchia? Prefiggendosi un assunto, concertando un’idea, si sarebbe potuto nullameno approfittare della bontà di quel popolo per fargli tollerare anche un poco l’anomalia di quello stato. Ma questo assunto, questa idea non poteva essere che una sola, quella di fare Italia tutta giudice della situazione degli Stati romani, e di chiamarla in via di giuri almeno a decidere se era colma per Roma la misura dei patimenti, se essa aveva abbastanza tollerato, e fu da questo lato come ad ultimo rifugio che si volsero molti animi. La Costituente italiana, idea che da più mesi teneva commossa tutta la penisola, fiammeggiante bandiera, dietro di cui venti milioni d’ uomini si erano agitati, poteva offrire una soluzione all’arduo problema che allora si dibatteva nello Stato romano, e verso la Costituente molti cuori si furono ripiegati. La politica però é una scienza esatta, una scienza che vive di fatti e non di astrazioni, e prima di chiarirsi per un partito qualunque urgeva che, coi documenti alla mano, come suol dirsi, si conoscesse per bene quali eventualità vi erano per la convocazione di quel gran consesso italiano”.
Una lettera del presidente del Consiglio di Piemonte a quello di Roma avvicinava la soluzione.
In essa si esortava “a riconoscere i diritti costituzionali del Pontefice, ad aver riguardo agli scrupoli religiosi di lui; si diceva che il governo di Torino era pronto ad offrire al Santo Padre un presidio di buoni soldati piemontesi, che lo accompagnerebbe a Roma, ed avrebbe per ufficio di tutelare la legittima podestà del Pontefice contro pochi tumultuanti”.
La lettura di quel foglio scaldava di sdegno gli animi di tutti; alcuni ne furono rattristati, i più vi attinsero una nuova, energia ad operare. I pochi tumultuanti, come si compiaceva chiamarli il ministro Sabaudo, seguendo il vezzo dei gabinetti assoluti, che dovevano essere messi al dovere dai soldati piemontesi, erano gli uomini del 16 novembre: era Roma tutta. Con tale intervento si, rendeva impossibile la guerra italiana, si sostituivano gli odi civili alla generosa umanità con cui l’ausonica penisola anelava al suo finale riscatto. Quello che pur non poco dispiacque fu il non essersi fatto punto parola nel foglio della Costituente italiana: quest’idea patrocinata con tanto calore nelle Legazioni, in Lombardia e in Toscana era già morta pel ministro piemontese.
L’assemblea fu tosto riaperta in tornata pubblica; e i Deputati corsero ad occupare i loro scanni con quell’interna agitazione che suole farsi in gravi o solenni momenti. Il primo che salì alla ringhiera, il Savini, proponeva issofatto la caducità del potere temporale de’Pontefici. Terenzo Mamiami succedeva a quel primo, e portando la questione ai termini in cui doveva essere posto riguardo al suo principio e al suo applicamelo, diceva non poter avere in Roma che i Papi, o Cola di Rienzo. I Papi, investiti del potere temporale, erano sempre stati il flagello d’Italia, il flagello della religione; la Repubblica invece era la più bella parola che potesse suonare su labbro d’uomo. Ma, profeta del male, presentava pericoli a pericoli: gli Stati romani non avevano le immortali falangi di Francia del 1793 per tutelare la Repubblica. Poteva sì la Toscana unirsi; ma essere di poco aiuto. Nella Liguria e nel Piemonte, ov’era il nerbo delle forze italiane, poteva invece arrecare gran danno. Ivi la proclamata Repubblica poteva eccitare fiere commozioni; l’esercito poteva sbandarsi, e l’Italia rimanere in balia di Radetzky.
L’Europa compatta e piegata al conservativo lo avrebbe lasciato fare; la Francia prima d’ogni altro paese, la Francia già meno Repubblica che impero napoleonico. Terminava l’oratore dichiarando incompetente l’assemblea a decidere quel gran quesito; si sottoponesse alla Costituente’ italiana, che solo poteva scioglierlo; non si dovesse scendere a dolorose o terribili prove intorno a forme di reggimento, quando i Croati si accampavano in Milano. Il deputato Agostini confutava una per una tutte le reticenze di Mamiani, facendo in ultimo considerare che la schietta proclamazione del principio repubblicano gioverebbe anziché nuocere; imperocché, questo, formulando nettamente i diritti e la dignità d’un popolo, avrebbe da essi allontanato per giustizia, per verecondia, per tema di eventi peggiori i minacciati interventi. Il deputato Masi aggiungeva parole infiammate di patrio amore. Il deputato Filopanti proponeva, quasi corollario di un suo lungo discorso, un decreto fondamentale per cui il papato decadeva di fatto e di diritto dall’autorità temporale sullo Stato romano, assicurando però al Pontefice le più stabili guarentigie per l’indipendente esercizio dell’apostolica potestà. Il deputato Audinot credeva perigliosa una radicale riforma governativa; approvava la decadenza del Papa-re, e pronunciavasi lavoratore di un governo provvisorio. Parecchi altri Deputati parlarono più o meno lungamente; molti dissero si concretasse il principio cui si oppose il ministro Sterbini, chiedendo una discussione più ponderata; Sterbini si palesava contrario al dominio clericale, pur non taceva i pericoli annessi alla proclamazione della Repubblica.
L’ora era tarda. L’assemblea si dichiarò in permanenza; e i dibattimenti vennero ripresi dopo una sosta di due ore e mezza. In quel frattempo parve che lo Sterbini ritogliesse maggiore fiducia sulla parola che diceva « scritta nel Campidoglio, scritta anche come per miracolo sulla bandiera di Roma. » Nonpertanto annunciò essere immensi i sacrifici da farsi, a cagione dei molti nemici sì nostrali che stranieri. Dopo di lui il Vinciguerra, il Gabussì, il Rusconi, il Canino si pronunciavano apertamente per la Repubblica.
Il discorso del Vinciguerra potevasi riassumere in queste parole: essere tempo di finirla coi Papi: da Giulio II a Pio IX avere essi sempre chiamati gli eserciti stranieri per esilio dell’Italia: nulla di più antinazionale di quel loro dominio, nulla di più doloroso nella loro storia; ardita pur l’assemblea uscisse e tosto dal provvisorio: essa non avrebbe fallito al suo mandato. —
Il Canino, trasvolando con facile immaginativa ai mari fortunosi dell’Oriente, accennava al Dairi che il barbaro Giapponese aveva pur saputo esautorare. Gl’Italiani, diceva l’oratore, saranno da meno del Cubo selvaggio lasciando sussistere quella incompatibilità dei due poteri, temporale e spirituale, in un solo uomo accumulati? Finiva dicendo sentire a tremare la terra sotto i piedi; essere le anime dei grandi trapassati che gridavano: Viva la Repubblica romana!Un solo deputato, il Cesari, ascese la ringhiera per leggere un suo discorso, in cui tentò mostrare pericoloso il proponimento che giù ferveva nell’animo dei più; ei non riscosse che ilarità generale. L’assemblea richiese infine la chiusura, e, respinta ogni altra proposizione, ad una immensa maggioranza, venne accettata quella di Filopanti, la quale leggermente emandata, diceva:
Art. 1. Il papato i decaduto di fatte e di diritto dal governo temporale dello Stato romano.
Art. 2. Il pontefice romano avrà tutte le guarentigie necessarie per la indipendenza nell’esercizio della sua potestà spirituale.
Art. 3. La forma del governo dello Stato romano sarà la democrazia pura, e prenderà il glorioso nome di Repubblica romana.
Art. 4. La Repubblica romana avrà col resto d’Italia le relazioni che esige la nazionalità comune.
Sopra 143 votanti, 120 adottarono questo decreto, 9 lo ripulsarono, 14 vi aderirono emendandone un articolo. La seduta quindi si sciolse. Erano le 2 del mattino: era il 9 febbraio.
Volemmo quest’importante discussione riferire alla distesa, affinché tutti veggano se fosse impeto inconsiderato quello che spinse a proclamare la Repubblica, se opera di non sappiamo quali mazziniani maneggi, anziché effetto di pura necessità, eseguita e compiuta dal popolo a ragione veduta e con pieno conoscimento di ciò che stava per fare. Giuseppe Mazzini giunse a Roma soltanto il 5 marzo, quando cioé non rimaneva più nulla a desiderare circa la forma del reggimento politico. Che la proclamazione della Repubblica fosse effetto di quel principio che da anni il Mazzini con costante perseveranza va predicando, noi non discuteremo; ma lo ripetiamo, respingiamo come bugiardi gli asserti de’ narratori ignoranti, o maligni delle politiche vicende di Roma.