Petrarca ed il maremoto di Napoli del 1343

Dopo il tramonto del 25 novembre del 1343, Napoli è scossa da uno spaventoso temporale o forse da un terremoto generatosi al largo delle coste campane. Francesco Petrarca è in città e, spaventato, ne parla in una epistola a Giovanni Colonna che riportiamo così come tratta dall’Istoria di Angelo di Costanzo.

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Orazio volendo descrivere una gran tempestade disse, ch’era tempesta poetica, e mi pare che non poteva più brevemente esprimere la grandezza d’essa, perchè nè il Cielo irato nè il mare tempestoso può fare cosa che non l’agguagli, e vinca lo stile de’ Poeti, descrivendola; e già voi vedete s’è vero nella tempesta di Cesarea, descritta da Omero, ma non si può pingere con pennello, nè scrivere con parole quella, ch’io vidi jeri, la qual vince ogni stile, cosa unica ed inaudita in tutte l’età del mondo, ch’Omero con la tempesta di Grecia , Virgilio con quella di Sicilia, e Lucano si stia con quella d’Epiro, che s’io avrò mai tempo, questa di Napoli sarà materia de versi miei, benchè non si può dire di Napoli, ma universale per tutto il mare Tirreno e per l’Adriatico; a me pare chiamarla Napolitana, poichè contra mia voglia mi ha ritrovato in Napoli, però s’io per l’angustia del tempo, ” partirsi il messo, non posso scriverla a pieno, persuadetevi questo, che la più orribile cosa non fu vista mai. Questo flagello di Dio era stato predetto molti giorni avanti dal Vescovo d’un’Isoletta qui vicina per ragione d’astrologia, ma come suol essere, che mai gli Astrologi non penetrano in tutto il vero , avea predetto sotto un terremoto grandissimo a venticinque di Novembre, per il quale avea da cadere tutta Napoli, ed avea acquistata tanta sede, che la maggior parte del popolo lasciato ogn’altro pensiero, atten dea solo a cercare a Dio misericordia de’ peccati commessi, come certo d’avere da morire di prossimo; dall’ altra parte molti si ridevano di questo vaticinio, dicendo la poca fede che si deve avere agli Astrologi, e massime essendo stati alcuni di avanti certi terremoti. In mezzo tra paura e speranza, ma un poco più vicino alla paura, la sera del ventiquattro del mese mi ridussi avanti che si colcasse il Sole, nell’alloggiamento, avendo veduto quasi la più parte delle donne della Città, ricordevoli più del ricolo che della vergogna, a piedi nudi coi capelli sparsi, coi bambini in braccio andare visitando le Chiese, e piangendo chiedere a Dio misericordia; venne poi la sera, e ‘l Cielo era più sereno del solito, e i servitori miei dopo cena andaro presto a dormire: a me parve bene d’aspettare, per vedere come si ponea la Luna, la quale credo che fosse settima, ed aperta la finestra che guarda verso Occidente, la vidi avanti mezza notte ascondersi dietro il Monte di San Martino con la faccia piena di tenebre e di nubi, e serrata la finestra mi posi sopra il letto, e dopo d’aver un buon pezzo vegliato, cominciando a dormire, mi risvegliò un romore ed un terremoto, il ” non solo aperse le finestre e spense il lume ch’io soglio tenere la notte, ma commosse dai fondamenti la camera, dove io stava: essendo dunque in cambio del sonno assalito dal timore della morte vicina, uscii nel Chiostro del Monastero, ov’ io abito, e mentre tra le tenebre l’uno cercava l’altro, e non si potea vedere, se non per benefizio di qualche lampo, cominciammo a confortare l’un l’altro : i Frati e ‘l Priore, persona santissima, ch’erano andati alla Chiesa per cantare mattutino, sbigottiti da sì atroce tempesta, con le Croci e reliquie di Santi, e con devote orazioni piangendo, vennero ove io era con molte torce allumate; io pigliato un poco di spirito, andai con loro alla Chiesa, e gittati tutti in terra, non facevamo altro che con altissime voci invocare la misericordia di Dio, ed aspettare ad ora ad ora che ce ne cadesse la Chiesa sopra. Sarebbe troppo lunga Istoria, s’io volessi contare l’orrore di quella notte infernale; e benchè la verità sia molto maggiore di quello che si potesse dire, io dubito che le parole mie pareranno vane: che gruppi d’acqua? che venti? che tuoni? che orribile bombire del Cielo? che orrendo terremoto ? che strepito spaventevole di mare? e che voci di tutto un sì gran popolo ? parea che per arte magica fosse raddoppiato lo spazio della notte, ma al fine pur venne l’aurora, la quale per l’oscurità del Cielo si conoscea più che per indizio di luce alcuna, e per congettura: allora i Sacerdoti si vestiro a celebrare la Messa, e noi che non avevamo ardire ancor d’alzare la faccia in Cielo, buttati in terra, perseveravamo nel pianto e nell’orazioni; ma poichè venne il dì, benchè fosse tanto oscuro che parea simile alla notte, cominciò a cessar il fremito delle genti dalle parti più alte della Città, e crescere un romore maggiore verso la marina, e già si sentivano cavalli per la strada, nè si potea sapere che cosa si fosse; al fine voltando la disperazione in audacia, montai a cavallo ancor io per vedere quel ch’era, o morire: Dio grande! quando ” mai udita tal cosa? i marinari decrepiti dicono, che mai fu nè udita nè vista: in mezzo del Porto si vedeano sparsi per lo mare infiniti poveri, che mentre si sforzavano d’arrivar in terra, la violenza del mare gli avea con tanta furia buttati nel Porto, che pareano tante ova che tutte si rompessero; era pieno tutto quello spazio di persone affogate, o che stavano per affogarsi, chi con la testa, chi con le braccia rotte, ed altri che lor uscivano le viscere, nè il grido degli uomini e delle donne, che abitano nelle case vicino al mare, era meno spaventoso del fremito del mare, si vedea, dov’il dì avante s’era andato passeggiando sulla polvere, diventato mare più pericoloso del Faro di Messina; mille Cavalieri Napolitani, anzi più di mille erano venuti a cavallo là , come per trovarsi all’esequie della Patria, ed io messo in frotta con essi, cominciai a stare di meglio animo, avendo da morire in compagnia loro, ma subito si levò un romore grandissimo, che ‘l terreno che ne stava sotto ai piedi, cominciava ad inabissarsi, essendogli penetrato sotto il mare, noi fuggendo ne ritirammo più all’alto, e certo era cosa oltremodo orrenda ad occhio mortale, vedere il Cielo in quel modo irato e’l mare così fieramente implacabile; mille monti d’onde, non nere nè azzurre, come sogliono essere nell’altre tempestadi, ma bianchissime si vedeano venire dall’Isola di Capri a Napoli. La Regina giovane scalza, con infinito numero di donne appresso, andava visitando le Chiese dedicate alla Vergine madre di Dio. Nel Porto non fu nave che potesse resistere, e tre galee ch’erano venute di Cipri, ed aveano passate tanti mari, e voleano partire la mattina, si vi dero con grandissima pietà annegare, senza che si salvasse pur un uomo ; similmente l’altre navi grandi ch’aveano battute l’ancore al Porto, percotendosi fra loro si fracassaro, con morte di tutt i marinari; sol una di tutte, dov’erano quattrocento malfattori, per sentenza condannati alle galee, che si lavoravano per la guerra di Sicilia, si salvò, avendo sopportato fin al tardo l’impeto del mare, per lo grande sforzo de ladroni che v’erano dentro, i quali prolungaro tanto la morte, ch’avvicinandosi la notte contra la speranza loro e l’opinione di tutti, venne a serenarsi il cielo ed a placarsi l’ira del mare, a tempo che già erano stanchi, e così d’un tanto numero si salvaro i più cattivi, o che sia vero quel che dice Lucano, che la fortuna aita li ribaldi, o che così piacque a Dio, o che quelli siano più securi nei pericoli, che tengano più la vita a vile. Questa è l’istoria della giornata d’ieri, voglio ben pregarvi, che non mi comandiate mai più a commettere la vita mia al mare ed ai venti, perchè nè a noi nè al Papa, nè a mio padre se fosse vivo, potrò essere in questo ubbidiente, lasciamo l’aria agli uccelli, il mare ai pesci, ch’io come animale terrestre voglio andare per terra, e mandatemi pur in Mauritania, in Sarmazia ed in India, altramente io mi protesto che mi servirò della mia libertà, e se mi potrete dire, io ti farò avere una buona nave guidata da esperti marinari, e potrai ridurti avanti notte al Porto, o potrai andare terra terra, io dirò, che non ho letto nè udito da altri, ma ho veduto dentro al Porto perire navi gagliardissime con famosi marinari, e per questo la modestia vostra deve perdonare al timor mio, e sarà meglio se mi lascerà morire in terra, poichè son nato in terra, ch’io, che nel mar Mediterraneo ho corso più volte fortuna, non voglio che mi si possa dire quel proverbio, che a torto si lamenta del mare, ch’essendo stato una volta per annegarsi, si pone la seconda volta a navigare. State sano.

 

 

 

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