Padova 1848: la Rivolta del Bo
Nel 1848 Padova visse aspre e gloriose giornate d’insurrezione contro l’occupazione austriaca. La cosiddetta “Rivolta del Bo” s’accese l’8 febbraio di quell’anno nei luoghi celebri della città: Caffè Pedrocchi e il Palazzo del Bo, sede dell’Università di Padova.
Quando la carrozza del maresciallo austriaco d’Aspre incrociò il corteo funebre dello studente Giuseppe Placco, la cui bara era coperta dal tricolore, gli animi si infuocarono. Il generale fu fatto oggetto di insulti dagli studenti, in particolare da parte di Bartolo Lupati; la carrozza proseguì ma gli austriaci, qualche ora dopo, risposero disponendo picchetti armati in ogni angolo della città in una specie di sottaciuto stato d’assedio. Il foglio politico letterario “Il Caffè Pedrocchi” del 6 aprile del 1848, con la penna di Cesare Magarotto, così scrive: “Il 7 e l’8 febbraio di questo anno furono memorabili pel contrasto della gioia e del lutto. Morto era un giovinetto studente; si volle che il suo funerale fosse argomento di dimostrazione politica. Esclusa la musica militare, fu assunta la civica; invitati intervennero tutti i Professori dell’Università, oltre a cento servi delle prime famiglie di Padova, un numero interminabile di cittadini e di studenti, vestiti la maggior parte alla foggia italiana, con cappello alla Calabrese piumato. Sul feretro era deposta una corona di fiori tricolorata. Non v’hanno parole per esprimere la gioia pura e piena onde quei giovani e il popolo furono compresi. – Ma la sera vennero ad oscurarla gl’insulti dell’inimico. – Nei caffè più frequentati costui spediva gl’infimi dei suoi militi con zigaro acceso per assidersi quasi a disfida in mezzo alla gioventù. Prudente questa si vendicava col più profondo disprezzo lasciando interamente vuoto il luogo. Anche quest’atto innocuo dava motivo agl’iniqui per trarre il ferro e far sangue. – Quella sera del 7 così appunto accadde”.
La spontaneità del tumulto esprimeva un diffuso odio verso gli austriaci che forse colse di sorpresa entrambe le parti. Il giorno dopo la presenza militare divenne assillante per gli animi ancora scossi degli studenti. Le provocazioni continuavano e le autorità cittadine, temendo disordini, si premurarono di chiedere il ritiro dei picchetti e la fine delle provocazioni dei militari. Fu tutto inutile. Ancora Cesare Magarotto scrive: “Per cui tutta la mattina dell’8 e studenti, e cittadini, e signore, e lo stesso Monsignor Vescovo s’adoperarono per mille forme presso il Delegato della Provincia, Piombazzi, e presso i Generali D’Aspre e Wimpfen onde far rientrare nei proprii limiti questa milizia, la quale già ognuno vedea manifestamente sitibonda di stragi. Ma tra il Delegato ed i Generali era già ordita la infernal trama. L’uno fingea mitezza, gli altri tracotanza; e l’uno e gli altri fabricavano il tradimento. Alle 5 pomeridiane si raccolsero gli studenti e numero pur grande di cittadini nel cortile della Università per intendere la risposta definitiva che il Rettore Magnifico dovea dar loro circa il risultato delle pratiche corse colla autorità. La risposta fu tranquillante: il militare avrebbe rispettato il civile, si sarebbe di buon’ora ritirato ai quartieri. Escivano lieti: quando appositamente inviati con zigari accesi si cacciano in mezzo alla folla alcuni ufficiali; il grido di un ragazzotto del volgo ‘abbasso il zigaro’ fu il segnale dell’attacco; coloro sguainano le spade, gli altri satelliti appiattati nelle prossime vie si presentano, scaricano i loro fucili sopra la turba inerme, e sopra la turba fuggittiva inveiscono colle baionette”.
Il Caffè Pedrocchi fu il luogo di uno spietato attacco su cittadini inermi. Ancora oggi, vi è visibile il foro di una pallottola sparata dai soldati austriaci contro quegli studenti. I colpi di fucile e gli affondi delle baionette seminarono sangue e terrore tra studenti e popolazione che provarono a difendersi scagliando pietre e oggetti. Tentativi di fuga disperata furono inutili e si assistette ad una strage che Magarotto così tratteggia: “I vili stando al di fuori moschettano per entro il Caffè Pedrocchi affollato di gente pacifica e innocua; gl’immondi contaminano di loro presenza e del loro piede quel monumentale edificio precipitandosi nell’interno quando già era a mezzo sgomberato; gli assassini trafiggono crudelmente con mille ferite e punture i miserabili nascosti sotto i divani. Un giovinetto che se ne fuggiva solo alla propria casa su incontrato da un picchetto di quelle belve che, a parte a parte lo passarono colle baionette, e spirò. Sotto ai portici, lungo le vie, giovani soli, inermi erano presi di mira dai moschetti nemici. – Le strade si fecero in breve deserte; e sulla scura notte quando ognuno si rinchiudeva nelle proprie case, questi lupi uscivano dai loro covi con tutto l’apparato della loro forza a percorrere la città”.
Celebre è la vicenda di Giovanni Anghinoni, lo studente di giurisprudenza che fu ucciso trafitto con la baionetta da una sentinella austriaca di guardia, mentre passava inerme in prossimità dell’allora Ufficio Postale in quell’8 febbraio del 1848. Il giorno dopo, in una citta muta e spaventata che però covava voglia di rivalsa, i militari, per lo più ungheresi e croati, persistettero in un atteggiamento di sfida e derisione. La baionetta che aveva trafitto Anghinoni, ancora sporca di sangue, fu pubblicamente esposta generando orrore e odio: “Il seguente giorno la maggior parte delle botteghe rimasero chiuse uno sdegno represso gonfiava i cuori; si contarono dei nostri due o tre morti, maggiore d’assai il numero dei feriti; dalla parte nemica i morti si dissero ascendere ad otto o dieci, dei feriti non si ebbe ragguaglio. Nel mentre sul nostro volto stava dipinta una cupa tristezza ed un mortale rancore, sulla faccia esosa dei nostri tiranni scoppiava il riso satanico dell’ironia e del trionfo. Percorreano baldanzosi le vie, danzavano a vista sulla publica piazza, e nefando a dirsi! ad orribile insulto, a provocazione novella, poneano le sentinelle nei luoghi più frequentati colle ignude baionette ancora intrise del nostro sangue. Tutti i buoni cittadini fremeano, e con caldi atti manifestavano la universale esecrazione. Andrea Meneghini e Guglielmo Stefani ne erano gl’interpreti i più infiammati. Eccitavasi ognuno che fosse stato testimonio dei fatti a dare la propria deposizione al Municipio, ove l’ottimo e pur benemerito Podestà Achille Zigno avea fatto aprire apposito protocollo, per quindi rassegnarlo qual monumento d’incredibile barbarie alle autorità superiori. Ma quelli erano tempi in cui l’amor della patria era un fallo, il sentirsi e il dirsi Italiano una colpa, il manifestare genero- si sentimenti un delitto. – Andrea Meneghini e Guglielmo Stefani furono arrestati e tradotti nelle carceri di Venezia a disposizione della polizia austriaca. Mille altri arresti e deportazioni; e gran numero di giovani arruolati forzatamente alla milizia”.
Il ruolo del Podestà, l’emergere di figure come Meneghini e Stefani, svelarono una inconsapevole unità del tessuto sociale padovano. In questi tre giorni la borghesia, il mondo intellettuale e quello studentesco, gli artigiani e i commercianti s’amalgamarono alla vecchia nobiltà, pur senza un programma politico definito. Sospinti dall’avversione agli austriaci e dal senso d’italianità scrissero una delle più dolorose e generose pagine del Risorgimento.
Autore articolo: Angelo D’Ambra