Milano austriaca

Dal 1706 sino al 1859 Milano restò austriaca. Non senza qualche turbamento.

Superata la Guerra di Successione Spagnola s’apprestò quella Polacca che vide, nel 1733, l’esercito franco-sabaudo di Carlo Emanuele III irrompere nel Milanese e costringere il governatore austriaco, il Conte Wirich Philipp von Daun, a ritirarsi al Mincio lasciando presidi solo a Novara e Milano. La capitale del Ducato non poté che consegnare le chiavi al Re di Sardegna. Era il 2 novembre 1733, due mesi dopo capitolò anche il castello difeso da Annibale Visconti. Fino all’agosto del 1736, Milano fu in mano ai Savoia, dopodiché trattative separate tra Francia ed Austria costrinsero Carlo Emanuele III a restituire il Milanese all’Austria, trattenendo per sé solo Novara e Tortona.

Carlo Emanuele III, quattro anni dopo, nel quadro della Guerra di Successione Austriaca, divenne alleato degli Asburgo. Milano fu perduta, gli spagnoli la occuparono nel dicembre del 1745 tenendola sino al 18 marzo del 1746. La restaurazione austriaca fu spietata, si misero in silenzio i collaborazionisti, perseguitandoli, incarcerandoli e costringendoli all’esilio. Tra questi esuli ci fu pure la Contessa Clelia del Grillo, donna colta ed amante delle arti e delle scienze, che nel suo salotto ospitò numerosi filospagnoli, tra cui il provveditore delle truppe, il Conte Giulio Antonio Biancani, poi catturato in territorio veneto, tradotto a Milano e decapitato.

Solo la Pace di Aquisgrana del 1748 concesse a Milano un lungo periodo di tranquillità in cui poterono maturare i progetti riformisti di Maria Teresa d’Asburgo. La base di queste riforme fu sicuramente il censo affidato al toscano Pompeo Neri. Fu un’impresa complicata che durò più di dieci anni, portando alla rigorosa ricognizione dei beni, alla stima dei redditi, all’istituzione di nuove imposte ed aliquote. Ciò diede il via ad una ver e propria rivoluzione nell’agricoltura perché, fissando un’imposta costante nel valore dei fondi censiti e lasciando esente l’eventuale reddito superiore alla stima che i fondi avessero potuto produrre, si stimolarono operosità, investimenti e spirito d’iniziativa per il miglioramento dei fondi e della produzione agricola.

Ciò si accompagnò con la ricostruzione delle finanze realizzata dal governatore Gian Luca Pallavicini che unificò i monopoli su sale, tabacchi, alcol e li concesse in appalto all’iniziativa privata. Così emersero figure come quelle di Antonio Greppi, nell’industria di lana e trasporti, e Giacomo Mellerio, nel vetro.

Un’altra riforma fu l’unificazione del debito pubblico al cui scopo fu istituito il Monte di Santa Teresa. Anche la moneta fu rinnovata e scomparve la zecca vecchia. Il Senato fu ridotto ad una magistratura giudiziaria nel 1772 e abolito nel 1786. Si soppresse anche la figura del governatore e dopo il Pallavicini non ve ne furono più, vi furono invece il Capitano Generale e l’Amministratore Serenissimo della Lombardia. Il Consiglio segreto fu trasformato in Consiglio privato e il potere effettivo venne affidato a ministri plenipotenziari come il Conte Beltrame Cristiani, il Conte Carlo di Firmian, il Conte Giuseppe di Wilzeck.

Milano vide l’abolizione della tortura nel 1789 e la limitazione della pena di morte ai soli delitti contro lo stato nel 1785.

Ciò non bastò a spegnere, nell’Ottocento, i sogni di libertà dei milanesi che si videro moltiplicare i reparti di truppe austriache. Le avvisaglie di quella che sarebbero divenute le Cinque giornate di Milano, si ebbero nel settembre del 1847. L’ingresso in città di un nuovo arcivescovo fu l’occasione per dar luogo a manifestazionie antigovernative da cui derivarono gravissimi incidenti. I milanesi avevano accolto al grido di “Viva Pio IX” l’alto porporato, anch’egli di nazionalità italiana. In quel periodo il pontefice pareva essere intenzionato a guidare un moto d’indipendenza nazionale e gridare il suo nome era come gridare “Viva l’Italia!”. Una penna reazionaria scrisse infatti: “O Dio, o Dio, / tutta l’italia mi sembra un pollaio; / non si sente gridar che pio pio”. Ed era così. Pio IX era la speranza anche dei milanesi che, per il solo fatto d’aver acclamato l’arcivescovo in quel modo, si videro caricati brutalmente dalla polizia. Come protesta contro queste violenze, decisero di non giocare più al lotto e di non fumare più per danneggiare così le finanze del governo che traeva da lotto e fumo grandi guadagni. In segno di provocazione la polizia mandò in giro per la città dei gendarmi avvinazzati o che fumavano spavaldamente per le strade facendo scoppiare, col loro contegno provocatorio, frequenti e sanguinosi tafferugli. All’arrivò della notizia della rivolta veneziana, il 18 marzo del 1848, una deputazione con a capo il conte Gabrio Casati, si recò a palazzo del governo, a chiedere al vicegovernatore O’ Donnel lo scioglimento della polizia e l’istituzione della guardia civica. Preso alla sprovvista, il vicegovernatore accolse la richiesta, ma, mentre la deputazione faceva ritorno al municipio, un’improvvisa scarica di fucileria, partita da un drappello di soldati, ammazzò un uomo. Fu quella la scintilla che fece scoppiare l’incendio, sedato il quale Radetzky avrebbe sentenziato: “Bastano 30 ore di strage per avere 30 anni di tranquillità”.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: A. Bosisio, Storia di Milano; AA.VV., Storia di Milano, Fondazione Treccani degli Alfieri

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