Matteo Wade e la difesa di Civitella nel 1806
A metà strada tra Ascoli e Teramo, al centro di una impervia e boscosa crosta rocciosa che si erge a otto chilometri da quella che era la frontiera pontificia, sorge Civitella del Tronto, piccolo abitato che, al cospetto di un possente sperone che divide la vallata, è sorvegliata da un’antica fortezza, tra le opere di ingegneria militare più imponenti con oltre 500 metri di lunghezza e i 25000 metri quadrati di superficie complessiva. Quando le truppe franco-pontificie, comandate dal Duca di Guisa e forti di diecimila uomini, varcarono il Tronto nel 1557, poterono occupare Campli, Teramo e Giulianova, ma non Civitella dove l’assedio, iniziato il 22 aprile, si concluse il mese seguente con un nulla di fatto e la ritirata degli invasori. Era la guerra di Papa Paolo IV contro la Spagna ed il Duca d’Alba, vicerè di Napoli. Fu a partire da quell’eroica vicenda che assieme a Capua e a Gaeta, Civitella prese a rappresentare per il Regno di Napoli la fortezza per eccellenza. Tuttavia occorsero oltre due secoli perché una nuova guerra mettesse nuovamente alla prova la funzionalità difensiva della fortezza e quella volta i risultati non furono così positivi: Giovanni Lacombe consegnò la piazza alla prima intimazione di resa francese, il 3 maggio del 1798. Furono i massisti a riprenderla l’anno appresso emulando le gesta di Carlo Loffredo, figlio del Marchese di Trevico, ed Antonio Sforza, Conte di Santafiora, protagonisti della resistenza del Cinquecento.
Dinnanzi alla seconda invasione francese ed alla rovinosa debacle dell’esercito di Ferdinando IV, Gaeta resistette grazie all’apporto delle truppe regolari borboniche – sebbene occorre precisare che circa un terzo della locale guarnigione era costituito da ex forzati – e degna di menzione fu pure l’attività dei corpi franchi al comando di Fra Diavolo. Diversamente a Civitella del Tronto, le forze irregolari ebbero un ruolo preminente e determinante per le sorti del ridotto nucleo militare di stanza nella guarnigione. Il maggiore Matteo Wade, irlandese d’ascendenza scozzese, al servizio dei Borbone di Napoli, già distintosi a Tolone nel 1783, dettò con la sua disciplina militare l’eccezionale resistenza del forte abruzzese.
Gli insorgenti invece si mossero guidati da Matteo Costantini alias Sciabolone. Intimata la resa al forte il 21 febbraio del 1806, Wade la respinse e non poteva essere altrimenti visto che le truppe d’oltralpe erano appena entrate nei territori del Regno attraverso L’Aquila e restavano ancora lontane dai monti del Teramano. Appena trecentoventitre erano gli uomini al suo servizio e per lo più erano soldati delle milizie provinciali e artiglieri litoranei, dunque neppure militarti di professione. Erano in loro possesso 19 pezzi del calibro dal tre al ventisei, con affusti di marina, più un mortaio; come munizioni si contavano alcune piramidi di palle, 100 cantara di polvere e 12 bombe.
Il magazzino aveva riso e legumi per tre mesi. Nulla poteva dirsi roseo, ma Wade sapeva di poter contare sullo spirito di sacrificio dei suoi: quando annunciò loro che avevano libera scelta di restare al forte o uscirne, solo tre soldati abbandonarono i ranghi. In questa occasione la ferrea volontà del maggiore si espresse con cento bastonate e la fucilazione per i tre. Wade sapeva di poter fare affidamento pure sull’abilità guerrigliera di Sciabolone, pastore di Lisciano che nel 1799 aveva già combattuto i Francesi ed era stato nominato colonnello nel 1801, ed inoltre sullo spirito di sacrificio dei suoi: quando annunciò loro che avevano libera scelta di restare al forte o uscirne, solo tre soldati abbandonarono i ranghi.
Sciabolone, che viveva a Sant’Omero, radunata una banda di quaranta fidati guerriglieri, raggiunse il forte suscitando il sostegno dell’intera cittadina che era ora disposta al sacrificio della resistenza sotto la guida di Giacomo A. Vasquez, notabile locale con un passato nelle fila dell’esercito di Spagna. Il 27 febbraio Sciabolone tentava un clamoroso colpo di mano su Teramo, sventato solo dalla decisa reazione della popolazione, le sue imprese tornavano ad incutere timore nel nemico, ma la sconfitta si apprestava il 27 marzo a San Nicola della Rocca, giorno in cui i Francesi misero alle strette Civitella.
L’attacco alla cittadella fu guidato dal generale di cavalleria Charles de Fregeville sotto l’alto comando del generale Gouvion Saint-Cyr, capo della divisione militare francese per la Puglia e gli Abruzzi. De Fregeville dispose lo spostamento dell’artiglieria pesante da Pescara a Civitella prendendo a bombardare la fortezza agli inizi di aprile. La mossa non fu sufficiente ad ottenere la resa di Wade e neppure gli attacchi notturni condotti alle mura della città il 15 aprile che furono respinti con scariche a mitraglia. La notte seguente il nemico riuscì ad entrare in paese e Wade, non volendo rischiare la guarnigione, si tenne fermo, accolse i civili armati e spedì qualche pattuglia a rincuorare quelli che sparavano dalle case. All’alba, i Francesi abbandonatisi al saccheggio furono sorpresi da Wade e messi in fuga.
Gouvion Saint-Cyr, insoddisfatto dell’operato di De Fregeville, ordinò la costruzione di nuove batterie ed opere d’assedio puntando a bombardare non il forte ma la città. Occupatala, le sue truppe si sarebbero potuti avvicinare al coperto ai bastioni della cittadella e minarli. Civitella fu così sottoposta ad un violentissimo fuoco d’artiglieria a partire dal 17 aprile del 1806 che raggiunse l’acme il 19 maggio. Nella notte i Francesi si avvicinarono alle tre porte della città, scalarono le mura e sopraffecero i difensori. Quarantatre abitanti, tra cui quattro donne, vennero massacrati nell’assalto, mentre case e chiese andarono a sacco e fuoco.
Preso così il paese, Saint-Cyr intimò una nuova resa. Wade chiese quattro giorni di tregua, ottenne appena sei ore: la resa fu sottoscritta nel pomeriggio del 21 maggio. Nove ufficiali riuniti a consiglio da Wade ne respinsero la proposta di lasciarsi seppellire dalle rovine del castello usando gli ultimi barili di polvere per far saltare tutto. La guarnigione uscì il 22 maggio a tambur battente con 30 uomini. I francesi resero a Wade e ai suoi gli onori militari. Tutti si erano rifiutati di portare la bandiera per non dover sopportare l’onta di consegnarla al nemico. L’atto fu lasciato simbolicamente ad un soldato accecato nell’assedio perché almeno non avrebbe visto a chi la consegnava. Per i cittadini di Civitella non ci fu nessuna pietà. Il 26 maggio ne furono fucilati in 24, tra cui il governatore. Wade con gli ufficiali fu deportato come prigioniero di guerra prima a Pescara, poi ad Ancona, Torino ed infine Nimes. Gli ufficiali furono internati in Francia, gli artiglieri furono costretti a prendere servizio coi Francesi, Wade fu trattenuto a Torino. Per lui si valutava una denuncia alla commissione militare di Francia come reo di resistenza temeraria. Il ministro della guerra la negò proponendogli di entrare nelle fila dei napoleonidi. Wade rifiutò per otto anni di aderire e restaurati i Borbone nel 1815 ottenne il grado di brigadiere, la carica di governatore di Castel dell’Ovo e l’annua pensione di 600 ducati.
Nel 1829 nel paese fu eretto un monumento con un sarcofago e due leoni dormienti con la scritta “Francesco I al prode Wade”.
Autore: Angelo D’Ambra
Bibliografia: A. Ulloa, Difesa del castello di Civitella del Tronto
Sono stato a Civitella due anni fa. Ho visitato il paese e la fortezza che offre belle vedute sulla valle circostante. Se la giornata è buona si può vedere anche il mare. Dentro vi hanno allestito un museo con armi e documenti. Noi continuammo il nostro viaggio verso il Gran Sasso, ma una mezza giornata vale la pena passarcela.