Marco Antonio accanto a Cesare
Abile condottiero, discendente da famiglia patrizia, Marco Antonio fu luogotenente di Gaio Giulio Cesare, sotto la cui protezione nel 50 a.C. fu eletto tribuno della plebe e augure. Durante questo anno Antonio sostenne Cesare nel conflitto con il senato e Pompeo che sarebbe culminato nella Battaglia di Farsalo. Il testo che segue è tratto da Giusto Traina, “Marco Antonio”.
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Terminata la guerra gallica, per Cesare era giunto il momento di regolare i conti con Pompeo e con la parte del senato a lui avversa. Dopo la morte dello scomodo Clodio, il proconsole si era guadagnato la fiducia di vecchi avversari politici. Altri alleati erano stati convinti dal suo denaro, che grazie al bottino gallico ora poteva elargire con generosità; uno dei nuovi adepti fu quel Curione che aveva preso a cuore i primi passi in politica del giovane Antonio. Così, grazie all’appoggio dei cittadini dei municipi e delle colonie, e a Roma col sostegno di Curione (allora tribuno della plebe), Cesare fece eleggere Antonio àugure, provocando la sdegnata reazione di Cicerone. Gli àuguri, all’epoca organizzati in un collegio di quindici membri (che esercitavano il sacerdozio per tutta la vita), eseguivano i riti ufficiali della divinazione, osservando il moto degli uccelli, in certi casi dei quadrupedi. Il loro responso rappresentava il volere degli dèi, e di conseguenza essi potevano controllare in modo anche rilevante l’attività politica: per esempio, un presagio debitamente interpretato poteva determinare lo scioglimento delle assemblee elettorali, compromettendo quindi l’elezione dei magistrati. Inoltre, il rituale degli àuguri era richiesto per tutte le cerimonie di fondazione di un edificio (di qui il termine di «inaugurazione»), ma anche di una nuova colonia e del suo territorio.
Alla fine del 50, sempre con l’appoggio di Curione, Antonio fu eletto tribuno della plebe. Nella carriera senatoria, poteva diventare tribuno della plebe chi era di famiglia plebea e aveva già rivestito la questura. Con le lotte politiche della tarda repubblica il tribunato era diventato una magistratura chiave: i dieci tribuni, che rappresentavano la plebe di fronte al senato, avevano notevoli poteri, come quello di contrastare e annullare dei provvedimenti impopolari. Inoltre, chi era stato tribuno poteva poi diventare membro del senato. Il tribunato di Antonio coincise con lo scoppio delle ostilità fra Cesare e Pompeo. Quest’ultimo voleva arruolare nuove truppe, e dichiarare Cesare nemico pubblico. Esercitando il suo diritto di veto, il tribuno Antonio cercò di opporsi al vecchio politico, e alla fine lo accusò con una violenta requisitoria. Il 7 gennaio 49, in una nuova seduta del senato, gli oltranzisti pompeiani presero una decisione definitiva contro Cesare, senza curarsi delle proteste di Antonio e del tribuno Cassio Longino. La situazione era precipitata: i due tribuni, insieme a Curione e ad altri cesariani, dovettero lasciare Roma e raggiungere Cesare. Antonio poté così rendersi nuovamente utile sul piano militare. La guerra civile partì da Rimini, con il celebre passaggio del Rubicone, avvenuto nella notte tra l’11 e il 12 gennaio 49. Antonio fu dapprima inviato ad Arezzo; in febbraio lo troviamo a Sulmona, che occupò con il suo contingente, accolto festosamente dai cittadini; infine, il 1° aprile a Roma, dove, insieme a Longino, poté prendersi la soddisfazione di convocare quegli stessi senatori che lo avevano cacciato.
Intanto anche il fratello cadetto, Gaio Antonio, era stato nominato da Cesare legato militare; agli ordini di Cornelio Dolabella (l’ambizioso genero di Cicerone che aveva sposato la causa cesariana), fu inviato a combattere i pompeiani nell’Illirico, ma non ebbe fortuna e, assediato su un’isoletta, fu costretto ad arrendersi. Non fu coinvolto invece il fratello più giovane, Lucio, che era stato inviato nella provincia d’Asia come questore. In assenza di Cesare, il tribuno Antonio divenne di fatto il suo vicario in Italia. La consegna era di mantenere il consenso dei soldati, con la consueta miscela di generosità e cameratismo; forte dell’appoggio dell’esercito, doveva invece mostrarsi arrogante nei confronti dei senatori. In particolare, doveva neutralizzare Cicerone, ed evitare che si allontanasse dall’Italia per raggiungere Pompeo, cosa che riuscì a ottenere solo per un breve periodo. L’epistolario di Cicerone conserva una sua lettera (definita «disgustosa»: Lettere ad Attico, X, 8, 9), scritta poco prima del 2 maggio 49, e consegnata all’anziano politico tramite un uomo di fiducia: il braccio destro di Cesare lo invitava a dimenticare i vecchi attriti, riconoscendo i propri torti e considerando Cicerone l’uomo per lui più caro, a eccezione del «suo» Cesare. Ma, a questa dichiarazione di umiltà, seguiva l’invito perentorio ad abbandonare Pompeo, e a «non schivare, al contrario, colui che, anche se non nutrirà affetto per te, cosa questa che non può accadere, tuttavia desidererà che tu sia salvo e goda di vastissima considerazione». Antonio concludeva la missiva sottolineando che l’aveva inviata «per farti sapere che sono oggetto delle mie attente cure la tua vita e il tuo prestigio» (ivi, X, 8a, 2).
In questo periodo, Antonio percorse la penisola per ottenere consensi e sottomissione. I suoi viaggi si contraddistinguevano per la pompa e l’esibizione arrogante del potere. Cicerone ne aveva questo ricordo:
che cosa furono le sue marce, le sue visite ai municipi! […] Su un carro da guerra gallico avanzava il nostro tribuno della plebe! Lo precedevano littori coronati d’alloro; in mezzo a costoro, adagiata in una lettiga scoperta, una ballerina; onorati cittadini dei municipi, costretti a muoversi dalle loro città, si facevano incontro, per salutarla, chiamandola non già col suo notissimo nome di teatro, ma con quella di Volumnia! Seguiva una carrozza, piena di ruffiani, compagni di turpitudini. La madre, relegata in coda, teneva dietro all’amante dello spudorato figlio, come si trattasse della propria nuora. Povera madre, che malanno la sua fecondità! Ecco le tracce degli scandali che costui ha impresso a tutti i municipi, alle prefetture, alle colonie, insomma a tutta l’Italia! (Filippiche, II, 57 sg.).
Avanzando su un essedum, il carro a due ruote utilizzato dai celti per gli sfondamenti veloci, il tribuno voleva ricordare il suo contributo all’ultima fase della guerra gallica: certo, gli avversari che rimproveravano al tribuno le pose da gladiatore, dovevano pensare alla recente introduzione degli essedarii nei combattimenti nell’arena. Ma non si trattava dell’aspetto più scandaloso di questo corteo che, per l’ostentazione di potere e ricchezza, emulava le solenni processioni delle corti ellenistiche: più notevole era la presenza della madre di Antonio, e soprattutto della «ballerina», Volumnia Citeride. La donna, liberta del chiacchierato cavaliere romano Volumnio Eutrapelo, era una famosa interprete di «mimo», una forma di spettacolo che univa danza, canto e recitazione, dai contenuti spesso licenziosi. Le rappresentazioni di mimo erano apprezzatissime dal popolo, e i politici populares come Antonio non disdegnavano di invitare i loro interpreti nei simposi.
Cicerone era particolarmente astioso nei confronti di Citeride, questa bellissima attrice che il tribuno, provocando ancora una volta i benpensanti, presentava in pubblico come una moglie. A detta dell’oratore, sarebbe arrivato a farla scortare dai littori (funzionari che accompagnavano i magistrati nei loro spostamenti), mentre i cittadini dei municipi dovevano salutarla non con il cognomen, ritenuto più adatto per un’attricetta, bensì con il rispettabile gentilizio di Volumnia: fatto questo ancor più deprecabile, dato che il tribuno era sposato con la cugina Antonia, che gli aveva dato una figlia, e che probabilmente lo tradiva già con Dolabella. Come già aveva fatto lo zio «Mezzosangue» con l’amante acquistata al mercato degli schiavi, Antonio ostentava la sua bella concubina come una sorta di status symbol. I conservatori avevano buon gioco nel criticare questo comportamento, dove però il maggior fattore di scandalo non era rappresentato dall’adulterio del tribuno; infatti, pur se le consuetudini ritenevano l’adulterio sconveniente, i romani lo tolleravano, purché fosse l’uomo a compierlo. Quello che più urtava i fustigatori dei costumi e i cittadini più sensibili al mos maiorum (i «costumi degli antenati») era l’ostentazione del rapporto fra un senatore e una liberta che esercitava un mestiere «infame», fatto che in tempi normali avrebbe fatto scattare gravi provvedimenti di censura. In ogni caso il sentimento di Cicerone, come vedremo tra poco, non era dovuto a semplice moralismo.
Molti aspetti di questo periodo restano oscuri o deformati dalla tendenziosità delle fonti. Secondo Cicerone, Antonio utilizzò il suo potere per richiamare molti cittadini rimasti fino ad allora in disgrazia, ma non avrebbe fatto nulla per richiamare lo zio Gaio Antonio dall’esilio (Filippiche, II, 56). Cicerone attribuiva quindi ad Antonio un’imperdonabile mancanza di pietas, facendo credere che avesse volutamente evitato il rientro dello zio. In realtà, Antonio non era così potente, e le sue azioni erano subordinate al volere di Cesare. Evidentemente, nel 49, un antico avversario come «Mezzosangue» doveva essere ancora neutralizzato. Intanto, alla fine dell’anno, Cesare aveva concluso le sue campagne in Occidente, e, prima di andare a combattere Pompeo in Oriente, si era assicurato un potere pressoché assoluto assumendo la carica di dittatore. La tradizione repubblicana prevedeva il ricorso a questa magistratura straordinaria nei periodi di crisi, ma per un periodo non superiore ai sei mesi. Tuttavia, l’istituzione originaria era stata profondamente cambiata dall’uso che ne aveva fatto, circa trent’anni prima, Lucio Cornelio Silla: questi, in quasi tre anni di dittatura, aveva riorganizzato profondamente le istituzioni repubblicane, con una forte spinta oligarchica. Cesare andò oltre, con un progetto ancor più ambizioso, che intendeva in qualche modo porsi al di sopra delle fazioni tradizionali della lotta politica.
Accanto al dittatore veniva nominato anche un magister equitum, «comandante della cavalleria», che fungeva da braccio destro del magistrato nelle campagne militari. L’incarico venne affidato ad Antonio: Cesare, che aveva subito ripreso la campagna contro Pompeo, gli ordinò di occupare i porti strategici dell’Epiro, ma il contrattacco nemico lo obbligò a rimanere a Brindisi, fino a quando non riuscì a eludere il blocco, sbarcando a Durazzo il 27 marzo, alla testa di un contingente di uomini entusiasti e pronti al rischio. Poco dopo ottenne l’appoggio della comunità romana di Lisso, punto strategico dell’Illirico situato all’imboccatura della Drina, e vi sbarcò con quattro legioni, rimandando le navi dall’altra parte dell’Adriatico ma lasciando a Lisso dei «pontoni», nell’eventualità che potessero servire a Cesare. La presenza di pontones, navi da carico di tipo gallico, può indicare la presenza di truppe di origine celtica (anche a Farsàlo combatterono ausiliari gallici e germanici), o più semplicemente che Antonio metteva in pratica l’esperienza militare acquisita in Gallia. Poi si ricongiunse con Cesare, presso il fiume Apso, e partecipò alle operazioni contro Pompeo, presso Durazzo, che però si conclusero con una sconfitta. La rivincita sarebbe arrivata nella pianura di Farsàlo, il 9 agosto 48, dove Antonio fu posto al comando dell’ala sinistra, e contribuì alla schiacciante vittoria del dittatore.