L’ultimo spadifero d’Italia

Si autodefinì l’ultimo spadifero d’Italia, cioè l’ultimo nobile della penisola ad aver portato al fianco lo spadino dopo la calata dei francesi. Parliamo del conte Monaldo Leopardi, padre di Giacomo, una delle più raffinate menti del legittimismo italiano. La critica ancora lo relega alla penombra e si divide nel giudizio del suo ruolo paterno – amorevole o severo, reale cagione delle sofferenze di suo figlio o meno -, ma molto ci sarebbe da dire sul suo pensiero, sui suoi scritti. Prova a farlo Riccardo Pasqualin in “La spada di Pulcinella. Il pensiero e l’opera di Monaldo Leopardi” ed il risultato getta luce su elementi inaspettati.

Il patrizio recanatese visse un’infanzia segnata dalla scomparsa del padre quand’aveva appena cinque anni. Fu educato dal gesuita Giuseppe de Torres, ma non fu costante negli studi, e poi, ereditati i beni paterni, sposò Adelaide Antici, donna che amò sinceramente nonostante fosse tanto lontana dal suo carattere. Restò fedele al pontefice nel marasma dell’occupazione francese e gli insorgenti recanatesi lo elessero loro governatore. Il nemico, tornato in città, lo condannò a morte e così fu costretto a fuggire nella campagna sino a quando tornò la tranquillità. Si votò, allora, all’amministrazione del patrimonio familiare, in questo scrupolosamente aiutato dalla moglie, all’educazione dei figli e all’accrescimento della sua biblioteca, che passò dai dodicimila volumi del 1812 ai quattordicimila del 1839. Si allontanò di rado dalla sua casa, si affidò ai libri piuttosto che i viaggi, li lesse e li scrisse. Tragedie, commedie, dialoghi, opere filosofiche, disanime sull’economia e sul commercio, lavori di storia locale. Era divenuto Consultore della Congregazione di Governo della Provincia di Macerata, ma, attestatosi su una linea moderata, era entrato in conflitto con chi esigeva la purga di tutti gli uomini compromessi coi napoleonidi e si era dimesso. Per due volte ricoprì anche la carica di Gonfaloniere di Recanati, facendosi apprezzare per la sua onestà. Animò, in veste di caporedattore, il giornale “La Voce della Ragione”, collaborando con molteplici esponenti del pensiero reazionario, non ultimo il Principe di Canosa.

La biografia, attentamente ricostruita da Pasqualin, è affiancata da una indagine sui suoi scritti politici. Tutto ciò aiuta a comprendere meglio l’essenza del suo pensiero, la coerenza delle sue posizioni, la volontà di non scendere a compromessi. Colpisce il sapore d’altri tempi ed altri gusti dell’elogio di un abbigliamento, semplice, elegante, dignitoso, composto. Colpisce il rimpianto per non aver studiato diligentemente il latino (per approfondire si legga l’articolo di Pasqualin per Historia Regni). Colpisce anche l’esaltazione di un patriottismo diverso da quello diffuso dai giacobini, distante dal nazionalismo e dall’idealismo, e fondato sulle libertà municipali ed i vincoli sociali estesi dalla famiglia alla cittadinanza. Interessante è l’uso della maschera di Pulcinella che, in uno dei “Dialoghetti”, lascia Napoli a caccia di libertà e va in un Paese in cui “il popolo è sovrano” scoprendo tutti gli inganni della democrazia.

Del Principe di Canosa, non condivideva l’idea di una mobilitazione popolare contro la rivoluzione, temeva rischi di anarchia e violenza. La difesa del cattolicesimo e della società tradizionale davanti al liberalismo ed alle costituzioni lo portò a criticare anche il Congresso di Vienna che non aveva ripristinato l’antico ordine e non aveva rispettato i troni legittimi, ma aveva realizzato una spartizione tra potenze vincitrici, imbevute anch’esse dei principi rivoluzionari, dilaniando persino lo Stato Pontificio.

Cadde nello sconforto quando seppe della morte di suo figlio Giacomo, nel 1837, e dieci anni più tardi, dopo una lunga infermità, spirò.

 

 

 

 

Autore articolo: Luigia Maria de Stefano

 

Bibliografia: Riccardo Pasqualin, La spada di Pulcinella. Il pensiero e l’opera di Monaldo Leopardi, Editrice Elzeviro, Padova 2021

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