L’ultima missiva (Racconto breve)

E se le celeberrime Idi di Marzo avessero avuto una motivazione molto diversa da quella che recitano la storiografia ufficiale e la letteratura, da Plutarco a Shakespeare a Valerio Massimo Manfredi? Forse la verità è nascosta in una missiva che Cleopatra VII Tea non ebbe mai il coraggio di rendere pubblica…

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Dedicata alla Dottoressa Annalisa Albuzzi

«Gli uomini credono volentieri a ciò che desiderano sia vero» (DE BELLO GALLICO, III, 18, 6)

 

 

C. I. Caesar Cleopatrae Suae Salutem Dicit.

O Regina delle Regine, Luce dei miei occhi ormai offuscati dalla malattia, mentre tu ti conservi nello stesso splendore circondata dal quale ti vidi quel lontanissimo giorno in cui uno dei tuoi servi srotolò il suo tappeto davanti a me, mostrandomi la tua bellezza per la prima volta; voglio che sia indirizzata a te l’ultima missiva che scriverò di persona ad un essere umano. Non ti stupiscano queste parole, o figlia dei Tolomei: è vero, tutte le volte che ci siamo incontrati negli ultimi anni, in pubblico o nel segreto dell’alcova, io apparivo come l’immagine stessa del vigore, incarnazione della potenza di Roma che ha spinto i suoi confini fino alla Germania e all’Eufrate. Tuttavia tu sei una delle poche a conoscere il mio segreto: fin dalla mia infanzia nella Suburra io soffro del morbo sacro. Come Socrate, come Alessandro il Grande, come molti altri prediletti degli dèi, mi hai detto tu stessa con la tua voce degna della Musa Calliope, la prima volta che ho avuto una crisi del mio male davanti a te. E come darti torto? Chi più di me nella storia di Roma ha colto tante prestigiose vittorie, chi ha sconfitto tanti nemici, da quando combattevo i pirati in oriente sotto il comando di Servilio Isaurico, fino alla mia recente vittoria di Munda sugli ultimi pompeiani in Spagna? Eppure, il grave morbo di cui soffro non è solo un regalo della mia divina protettrice Venere, madre di Enea, capostipite della Gens Iulia cui mi glorio di appartenere.

Non voglio tenerti oltre sulle spine, mia diletta, madre del nostro figlio Tolomeo Cesare, e per questo ho deciso di dirti tutta la verità, per quanto dolorosa essa possa risultare ai tuoi occhi di regina. Il mio medico personale Antistio è stato chiaro: l’intensificarsi degli attacchi epilettici e delle atroci emicranie che ormai quotidianamente mi perseguitano, paragonabili solo ai dolori provati dal sommo Giove quando diede alla luce Minerva dalle proprie tempie, sono chiaro sintomo di un male a rapido decorso, degenerativo e incurabile, che lui ha chiamato cancro al cervello. Non vi è modo di arrestare la sua repentina crescita, né facendo ricorso a tutta la scienza di Ippocrate di Coo e di Erasistrato di Ceo, né levando preghiere a quegli déi dell’Olimpo che tu veneri con tanto commovente pietà, e nell’esistenza dei quali invece io non ho mai realmente creduto, pur ricoprendo da tanti anni la carica di Pontefice Massimo. So che gli Egiziani, che hanno la fortuna di avere te come loro Sovrana, praticavano la trapanazione del cranio e la rimozione di mali come il mio fin da tempi immemorabili, quando Osiride ancora regnava sul Duplice Regno, ma so anche che, nelle mie condizioni attuali, non sopravvivrei mai ad un intervento chirurgico così invasivo. E questo significa una cosa sola, o Figlia dei Faraoni, o prediletta di Horus che si libra in forma di falco sulle acque iridescenti del Nilo: la mia lunga ed avventurosa vita è giunta al capolinea. Tutte le imprese che ho progettato, dalla sottomissione dei Germani che tante volte hanno interferito con la mia conquista della Gallia alla definitiva sconfitta dei pirati dalmati, dall’occupazione della Dacia di Re Burebista fino alla resa dei conti finale con i Parti per aprire una via commerciale diretta verso l’India, resteranno per me solo come il sogno di un vecchio febbricitante, come un commentario scritto sulla sabbia del mare che viene cancellato dall’arrivo di un’onda imbizzarrita. Forse dopo di me sorgerà chi realizzerà questi sogni: magari proprio il mio fidato Marco Antonio, che ho già inviato una volta presso di te quale latore dei miei messaggi, oppure mio nipote Quinto Pedio, mentre non credo che il mio diciottenne pronipote Caio Ottaviano, che pure amo molto, avrà mai un ruolo davvero importante nella storia di Roma, malaticcio e inetto alla battaglia com’è.

Spero vivamente che il mio successore nella Dittatura, chiunque esso sia, sia degno di raccogliere il mio testimone; ma questa non è la mia sola preoccupazione, in questo momento. So infatti che la malattia di cui soffro mi ridurrà ad un rottame d’uomo, forse addirittura ad un vegetale che non ricorderà neppure il nome di uno dei campi di battaglia sui quali mi sono coperto di gloria. E io in questo modo non voglio finire, per Ercole.  Questa sera stessa, a casa di Marco Emilio Lepido, pur senza fargli intendere alcunché circa la terribile condanna a morte che mi pesa sulla testa come la proverbiale spada di Damocle, ho affermato che preferirei mille volte una morte improvvisa e rapida allo sfinimento della vecchiaia o di una malattia; e non stavo affatto mentendo. Ho già predisposto ogni cosa, o figlia di Iside e di Osiride, o pupilla di Ra, così come predisponevo sempre minuziosamente ogni particolare, prima di ingaggiare battaglia con qualsiasi nemico. So infatti di avere più nemici che amici, qui nella città di Roma. Il partito nobiliare è insofferente della mia Dittatura, e il defunto Pompeo ha più seguaci di quanti nessuno potrebbe mai immaginare, sui Sette Colli di Roma, a partire da quel Cicerone che tante volte ha già voltato gabbana negli ultimi anni. Ho le prove sicure che persino alcuni tra coloro che sono sempre stati al fianco fin dalle guerre di Gallia, come Gaio Trebonio, Decimo Giunio Bruto Albino, Lucio Minucio Basilo e Servio Sulpicio Galba, tramano contro di me. E soprattutto, mi si sono rivoltati contro anche i due Pretori per quest’anno, Gaio Cassio Longino e Marco Giunio Bruto. Anche tu, Bruto, figlio mio! E non solo adottivo, visto che egli è nato da una mia relazione con sua madre, la bellissima Servilia, quando avevo solo diciannove anni, anche se egli lo ha sempre ignorato.

I miei informatori mi dicono per certo che essi hanno organizzato una congiura per eliminarmi, onde restaurare quella Repubblica che essi mi accusano di aver abbattuto, per farmi re e trasformare Roma in un mio potentato personale. Ma i miei avversari pensano forse che io sia cosi sprovveduto da non accorgermi dell’astio crescente nei miei confronti, e dei discorsi che si fanno dietro le mie spalle per impedire che io instauri un’autocrazia e una dinastia, come quella di Tolomeo cui tu ti vanti di appartenere? Poveri stolti: nulla può sfuggire al mio occhio di falco, almeno finché la malattia inguaribile non lo avrà ottenebrato. Io però ho deciso di non muovere un dito per fermare i congiurati, ed anzi di favorirli! Ho rinunciato volontariamente alla scorta della mia fidata guardia personale, affinché essi si sentano liberi di tramare nell’ombra ai miei danni. Ho fatto in modo che Marco Antonio non sia con me, quando verrà il momento ferale. Ma soprattutto, ho disseminato tutt’attorno a me segni di falsi presagi, che sembrino annunciare la morte di un personaggio influente. Alcuni giorni fa, durante un sacrificio, ho fatto finta di non trovare il cuore della vittima, il che è stato interpretato come un presagio di malaugurio. Ho pagato un aruspice, un certo Spurinna, acciocché mi gridasse in faccia pubblicamente di guardarmi dalle Idi di Marzo, così da provocare i congiurati e da offrire loro un’occasione più che ghiotta per venire allo scoperto. Ho fatto mettere in giro ad arte la voce che le mandrie di cavalli da me fatte liberare al momento del passaggio del Rubicone, cinque anni fa, hanno cominciato inspiegabilmente a piangere a dirotto. A questo punto i congiurati sono cotti a puntino, e sono sicuro che domattina, quando entrerò nel Foro di Pompeo, mi si faranno incontro per mettere in atto il loro tristo progetto. L’unico ostacolo alla realizzazione del mio piano, volto ad assicurarmi una morte gloriosa a fil di spada anziché una ignobile per mezzo di un’orribile malattia, è rappresentata da quell’ingenuo filosofo, Artemidoro di Cnido, il quale va dicendo a tutti nelle Basiliche dell’Urbe che i miei nemici si apprestano ad uccidermi, e che più volte mi ha fatto pervenire tutta una serie di messaggi per avvisarmi di non recarmi, domani, alla seduta del Senato: devo essere certo che non convinca i congiurati a rinunciare al loro proposito, sentendosi scoperti, altrimenti il mio piano andrà in fumo come le offerte sui bracieri sacrificali. Infatti ho posto a Bruto e Cassio un preciso limite temporale, onde forzar loro la mano, affermando che il 16 marzo sarei partito per la mia nuova campagna contro i Parti onde recuperare le insegne romane sottratte a Crasso; se per colpa di Artemidoro essi dovessero rimandare la loro azione, sarei costretto a partire e dovrei affrontare la mia Nemesi, il cupo morbo che mi ridurrebbe ad un morto quando ancora sarei in vita.

E questo è tutto, mia Regina, splendore della Valle del Nilo, la cui bellezza supera quella delle più celebrate eroine dell’antichità. Quando leggerai questa mia ultima lettera, i pugnali dei miei nemici mi avranno già colpito, convinti di avermi sorpreso a tradimento proprio nel momento in cui credevo di essere acclamato Rex Populi Romani, e sarò asceso al cielo in modo eroico, invece di spegnersi in una lenta agonia. Non ci vedremo mai più, e tu non potrai più stringermi tra le tue braccia, ma preferisco così a uno struggente addio, tra un diluvio di lacrime e una marea di litanie dei sacerdoti di Giove Ammone. Inoltre, forse non tutto è perduto per il nostro amore. Forse, se vedrai un pavone volare fino alla tua reggia di Alessandria e appollaiarsi sul tuo balcone, intonando uno struggente canto d’amore, ecco, quello sarà il mio spirito che, prima di raggiungere i Campi Elisi ove soggiornano i leggendari eroi dei tempi mitici, è venuto a salutarti per l’ultima volta. Gloria e splendore a te, o Figlia dei Faraoni, erede di Alessandro Magno, Gemma dell’Oriente, Madre di mio Figlio. Si Vos Bene Valetis, Ego Valeo. Sempre tuo

 

Caio Giulio Cesare, Dittatore Perpetuo

 

 

 

 

 

 

Autore: Franco Maria Boschetto Soldavini

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