Ludovico Nesbit e il deserto della Dancalia

L’esploratore Ludovico Nesbit, nel 1928, compì l’impresa più significativa della sua vita percorrendo la Dancalia, allora in gran parte inesplorata e mai attraversata interamente da un europeo. Ne scrisse in La Dancalia Esplorata.

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Almeno avesimo conosciuto sommariamente i luoghi per indagar nei dintorni: ma se le pozze si trovavano a tre a quattro e a cinque tappe le une dalle altre ci era poco da star tranquilli. Le guide e la gente che vive in quei luoghi ne conoscono i punti per tradizione secolare: essi poterono annotare, negli anni di piogge eccezionali, dove l’acqua rimase e durò più a lungo contro l’evaporazione di quel sole d’inferno. E di queste pozze – cavità naturali nelle rocce – se ne vedono di piccole e di grandi e resistono diversamente contro l’evaporazione.

Rari anche sono i piloti che le conoscono, perchè non v’è ragione di spostamenti di tribù per razzie in quei territori deserti per centinaia di chilometri. E questo s’accentua verso il Birù nella direzione che noi tentavamo. Territorio isolato che nessuno molesta, protetto dalla sua assoluta miseria, dalle infuocate arene e dalle taglienti colate di lava che gli fanno intorno infernale barriera.

Procedevamo sempre tra sassi e sassi senza mai porre il piede in piano tra quei dirupi foschi, nella notte tetra, tra quelle forre, e gole e corridoi che sotto la scialba luna formavano un passaggio d’incubo… Ma come volle il destino benigno, dopo varie ore di codesta sofferenza, mentre i cammelli cadevano e si lamentavano con suoni mozzi, come voci di rassegnazione e di pietà, accasciandosi e spesso rovesciandosi tra i sassi per poi rialzarsi alla voce che solo li eccita, li sostiene e li guida in quei casi, finalmente, che è che non è, è essa, sì non c’è dubbio! Fra i neri sassi a metallici spigoli, sotto il raggio della luna apparve una vasta pozza che rifletteva la luce.

Essa era chiusa alle spalle da un baluardo verticale e attorno da macigni altissimi, ancora sotto di noi nell’alveo del torrente Sardò, chè la sorprendevamo da un alto crinale. Ma per la sete e la gioia e il caldo notturno e il continuo sudore, corsi tra sasso e sasso e giunsi infine a quell’acqua in cui affondai il viso e la testa e bevvi a saziarmi. Quindi in pochi minuti giunsero i cammelli e la gente e tutti si dissetarono. Poi scaricato in fretta sul greto un po’ a valle di essa, ci disponemm a passare ivi la notte. Ritornai quindi alla pozza e riempii le nostre borracce di quell’acqua denza e fetida, ma abbondante. Il campo già dormiva: nnon un suono, non una voce anche sommessa, non un bisbiglio. Non più quel continuo ciarlar dei servi che ci obbligava con le grida a costringerli al sonno. Ora la spaventosa stanchezza e l’orrore dell’arso paesaggio, che incombeva dintorno con funerei presagi di sofferenze atroci tra gl ispasimi del caldo e della sete, aveva schiacciato quei poveri servi, disseccando nelle loro gole la vena dell’incontenibile cicaleccio e del pettegolezzo.

 

 

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