Lo stendardo di Lepanto a Torino?
Quando si parla della battaglia di Lepanto, di solito ci si concentra sulle galee veneziane e quelle spagnole nell’epico scontro navale contro la flotta dell’Impero Ottomano, nel mare della Grecia. Spesso si dimentica che a questa battaglia parteciparono anche delle galee sabaude.
Emanuele Filiberto di Savoia, infatti, sia per ottenere i favori e l’appoggio di papa Pio V, sia per promuovere il prestigio del suo ducato, inviò una flotta di tre navi, al comando dell’ammiraglio Andrea Provana di Leynì.
Diverse erano le galee del Ducato di Savoia tenute alla fonda nel porto di Villafranca, vicino a Nizza. Esse normalmente navigavano davanti a quella costa con il compito di prevenire le scorrerie dei corsari barbareschi. Tra le galee di Villefranche, ne furono scelte tre per prender parte all’impresa: i loro nomi erano La Piemontesa, La Margherita e La Capitana.
A quei tempi, nel Mediterraneo navigavano due tipi di galee: la “ponentina” e la “levantina”. Le galee veneziane e quelle turche erano “levantine”, mentre quelle spagnole, quelle del Ducato di Savoia, così come quelle di Genova, Toscana, Stato Pontificio e Cavalieri di Malta, erano “ponentine”. La prime dislocavano meno rispetto alla ponentine ed erano quindi più agili sotto i remi; il loro aspetto negativo era dato dal fatto che tenevano peggio il mare rispetto alle ponentine, le quali inoltre, dotate di vele più grandi, erano molto più efficienti nello sfruttare il vento. Comunque le galee piemontesi, dopo aver raggiunto le altre galee della Lega Santa, presero parte allo scontro, e si batterono con onore.
La Capitana, sulla quale era imbarcato Andrea Provana, fu stretta da due galee turche, subendone l’abbordaggio. Nel combattimento che ne seguì, il Provana venne ferito alla testa da un colpo di archibugio, stramazzando sul ponte privo di conoscenza per molto tempo. Grazie però al “morione” che indossava, il colpo non fu letale. Per fortuna, la galea comandata dallo spagnolo Alvaro de Bazan, che si trovava lì nei pressi, corse in aiuto de “La Capitana” a mal partito e con l’arrivo di forze fresche, l’equipaggio piemontese, al quale si aggiunse il Provana, quando ritornò cosciente, si battè con nuova energia contro le due galee turche, e riuscì addirittura a catturarle.
La Piemontesa, invece, rimasta in posizione isolata, fu abbordata da tre galee turche contemporaneamente, e sopraffatta. L’equipaggio, ufficiali e rematori inclusi, rifiutarono la resa, e combatterono fino al fine. Su un equipaggio di duecento persone, ne furono uccise centottantotto, compreso il capitano Ottaviano Moretto, e soltanto dodici, seppur gravemente ferite, sopravvissero. A prezzo di un enorme spargimento di sangue, la battaglia comunque fu vinta. La notizia del successo giunse a Emanuele Filiberto sedici giorni dopo, tramite un corriere che la Serenissima inviò al suo ambasciatore a Torino.
Quando il Duca seppe la notizia, ordinò che le campane delle chiese suonassero a distesa. Il popolo, accorso presso l’abitazione dell’ambasciatore, fu accolto festosamente dai suoi servitori ed invitato ad entrare per festeggiare. A tutti furono offerti cibo e vino, alla salute del Duca e di Venezia. La sera il Duca ordinò dei “fuochi di gioia” e fece sparare tutte le artiglierie della Cittadella. Comandò che l’indomani la corte ed il popolo partecipassero ad una solenne processione col canto del Te Deum nella Cattedrale, poi si recò personalmente a rendere grazie in San Giovanni.
In ogni caso, molti gentiluomini, il fiore della nobiltà piemontese, che avevano voluto partecipare alla grande impresa imbarcati sulle galee, erano tutti morti, compreso un Savoia del ramo Racconigi, cioè Francesco, figlio di Filippo, conte di Pancalieri. L’ammiraglio Andrea Provana invece, ripresosi dalle ferite, ottenne grandissimi onori tra i quali quello di Grande Ammiraglio dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e il Collare dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata. Una leggenda nata nell’Ottocento, individuava lo stendardo che portava la sua galea in quello conservato a Torino, nella Chiesa di San Domenico. Esso è bianco, di forma quadrata, con un grande sole nel mezzo, da cui si irradiano raggi di porpora e d’oro. Al centro di questo sole vi è la Vergine, che regge il lenzuolo della Sindone, con l’aiuto degli angeli, mostrandolo aperto e disteso. Tuttavia si tratta di una leggenda: lo stendardo di San Domenico non ha nulla a che fare con Lepanto. Esso risale invece al 1640, e venne realizzato per il principe Tomaso di Carignano dalla municipalità di Torino (ragione dei colori giallo e azzurro e dello stemma civico ai quattro angoli), durante l’assedio della città, da parte delle truppe francesi.
Autore articolo: Paolo Benevelli