L’Italia sul finire del Quattrocento
Lorenzo de’ Medici, Ferrante d’Aragona, Gian Galeazzo Sforza, Ferrara ed i Veneziani… Francesco Guicciardi ci offre questo composito ritratto dell’Italia sul finire del Quattrocento.
***
[…] si attribuiva laude non piccola all’industria e virtù di Lorenzo de’ Medici, cittadino tanto eminente sopra il grado privato nella città di Firenze, che per consiglio suo si reggevano le cose di quella repubblica, potente più per l’opportunità del sito, per gl’ingegni degli uomini e per la prontezza di denari che per la grandezza del dominio. E avendosi egli novamente congiunto con parentado, e ridotto a prestare fede non mediocre a’ consigli suoi Innocenzo ottavo, pontefice romano, era per tutta Italia grande il suo nome, grande nelle deliberazioni delle cose comuni l’autorità. E conoscendo che alla repubblica fiorentina e a sè proprio sarebbe molto pericoloso se alcuno de’ maggiori potentati ampliasse più la sua potenza, procurava con ogni studio che le cose d’Italia in modo bilanciate si mantenessero che più in una che in un’altra parte non pendessero. Il che senza la conservazione della pace e senza vegghiare con somma diligenza in ogni accidente, benchè minimo, succedere non poteva. Concorreva nella medesima inclinazione della quiete comune Ferdinando di Aragona, re di Napoli, principe certamente prudentissimo e di grandissimo valore, con tutto che molte volte per il passato avesse dimostrato pensieri ambiziosi, e alieni da’ consigli della pace, e che in questo tempo fosse molto stimolato da Alfonso, duca di Calabria, suo primogenito; il quale mal volentieri tollerava che Giovan Galeazzo Sforza, duca di Milano, suo genero, maggiore già di venti anni, benchè d’intelletto incapacissimo, ritenendo solamente il nome ducale, fosse depresso e soffocato da Lodovico Sforza suo zio. Il quale, avendo, più di dieci anni prima, per l’imprudenza e impudici costumi della madre madonna Bona, presa la tutela di lui, e con questa occasione ridotte a poco a poco in potestà propria le fortezze, le genti d’arme, il tesoro e tutti i fondamenti dello Stato, perseverava nel governo non come tutore o governatore, ma, dal titolo di duca di Milano in fuori, con tutte le dimostrazioni e azioni da principe. E nondimeno Ferdinando (avendo più innanzi agli occhi l’utilità presente che l’ antica inclinazione o l’indignazione del figliuolo, benchè giusta) desiderava che Italia non si alterasse; o perchè, avendo provato pochi anni prima con gravissimo pericolo l’odio contro a sè de’ baroni e de’ popoli suoi, e sapendo l’affezione che, per la memoria delle cose passate, molti dei sudditi avevano al nome della casa di Francia, dubitasse che le discordie italiane non dessero occasione a’ Franzesi di assaltare il reame di Napoli; o perchè per fare contrappeso alla potenza de’ Veneziani, formidabile allora a tutta l’Italia, conoscesse esser necessaria l’unione sua con gli altri e specialmente con gli stati di Milano e di Firenze. Nè a Lodovico Sforza, benchè di spirito inquieto e ambizioso, poteva piacere altra deliberazione, soprastando non manco a quegli che dominavano a Milano che agli altri il pericolo del Senato veneziano, e perchè gli era più facile conservare nella tranquillità della pace che nelle molestie della guerra l’autorità usurpata. E sebbene gli fossero sospetti sempre i pensieri di Ferdinando e d’ Alfonso d’Aragona; nondimeno, essendogli nota la disposizione di Lorenzo de’ Medici alla pace, ed insieme il timore che egli medesimamente avea della grandezza loro, e persuadendosi che per la diversità degli animi e antichi odi tra Ferdinando e i Veneziani fosse Vano il temere che tra loro si facesse fondata congiunzione, si reputava assai sicuro che gli Aragonesi non sarebbero accompagnati da altri a tentare contro a lui quello che soli non erano bastanti a ottenere. » Essendo adunque in Ferdinando, Lodovico e Lorenzo, parte per i medesimi, parte per diversi rispetti, la medesima intenzione alla pace, si continuava facilmente una confederazione contratta in nome di Ferdinando re di Napoli, di Giovan Galeazzo duca di Milano e della repubblica fiorentina per difensione de’ loro stati. La quale, cominciata molt’anni innanzi e dipoi interrotta per vari accidenti, era stata nell’anno mille quattrocento ottanta, aderendovi quasi tutti i minori potentati d’ Italia, rinnovata per venticinque anni; avendo per fine principalmente di non lasciar diventare più potenti i Veneziani; I quali, maggiori senza dubbio di ciascuno de’ confederati, ma molto minori di tutti insieme, procedevano con consigli separati dai consigli comuni, e aspettando di crescere dall’altrui disunione e travagli, stavano attenti e preparati a valersi di ogni accidente, che potesse aprir loro la via all’imperio di tutta Italia. Al quale che aspirassero, si era in diversi tempi conosciuto molto chiaramente; e specialmente quando, presa occasione dalla morte di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, tentarono sotto colore di difendere la libertà del popolo milanese, di farsi signori di quello stato; e, più frescamente, quando con guerra manifesta di occupare il ducato di Ferrara si sforzarono. Raffrenava facilmente questa confederazione la cupidità del Senato veneziano; ma non congiungeva già i collegati in amicizia sincera e fedele. Conciossiacosachè, pieni tra sè medesimi di emulazione e di gelosia, non cessavano di osservare assiduamente gli andamenti l’uno dell’altro, interrompendosi scambievolmente tutti i disegni, per i quali a qualunque di essi accrescere si potesse o imperio o riputazione. Il che non rendeva manco stabile la pace; anzi destava in tutti maggior prontezza a procurare di spegnere sollecitamente tutte quelle faville, che origine di nuovo incendio esser potessero. Tale era lo stato delle cose, tali erano i fondamenti della tranquillità d’Italia, disposti e contrappesati in modo che non solo di alterazione presente non si temeva, ma nè si poteva facilmente congetturare da quali consigli o per quali casi o con quali armi si avesse a muovere tanta quiete; quando nel mese d’aprile dell’anno mille quattrocento novantadue sopravvenne la morte di Lorenzo de’ Medici; morte acerba a lui per l’età (perchè morì non finiti ancora quarantaquattro anni), acerba alla patria, la quale, per la riputazione e prudenza sua e per l’ingegno attissimo a tutte le cose onorate ed eccellenti, fioriva maravigliosamente di ricchezze e di tutti quei beni ed ornamenti, da’quali suole essere nelle cose umane la lunga pace accompagnata; ma fu morte incomodissima ancora al resto d’Italia, così per le altre operazioni, le quali da lui per la sicurtà comune continuamente si facevano, come perchè era mezzo a moderare, e quasi un freno ne’ dispareri e ne’ sospetti, i quali per diverse cagioni tra Ferdinando e Lodovico Sforza, principi d’ambizione e di potenza quasi pari, spesse volte nascevano. Da che molti, forse non inettamente seguitando quel che di Crasso tra Pompeo e Cesare dissero gli antichi, l’assomigliavano a quello stretto, il quale, congiungendo il Peloponneso, oggi detto la Morea, al resto della Grecia, impedisce che l’ onde de’mari Jonio ed Egeo tumultuosamente insieme non si mescolino.