L’Inquisizione spagnola e le streghe

Per tre secoli in Spagna l’Inquisizione si mosse contro donne chiamate ilusas e sostanzialmente equiparate alle streghe. Lo fece con un atteggiamento molto diverso da quello comunemente attribuitole.

Il 22 luglio 1529 Isabel de la Cruz, terziaria francescana di Guadalajara, figlia di conversos, comparve all’autodafé. Venne frustata pubblicamente e condannata al carcere a vita come principale ispiratrice di una corrente mistica ritenuta eretica. Il suo processo rientra in quelli contro gli alumbrados, gli illuminati che insegnano l’abbandono a Dio, un’etica pericolosa perché suppone che questo amore conferisca l’impossibilità di peccare. Un secolo dopo, Ana de Abella, fu perseguitata per le stesse ragioni e condannata come folle. Nel 1634, madre Luisa de Carrion, consigliera di Filippo IV, finì nelle indagini dell’Inquisizione che la accusava di impostura e sortilegi per una serie di miracoli ad essa attribuiti. Morì di morte naturale, nella sua cella, prima della sentenza definitiva.

Il grosso delle ilusas rifiutava il controllo dei confessori, rifiutava di discutere con gli ecclesiastici delle proprie visioni, rifiutava di essere definito e limitato da un sapere che spiega loro chi sono, cosa sono le loro visioni e le loro rivelazioni. Se Teresa d’Avila poté evitare l’Inquisizione fu solo grazie al suo rispetto ed alla sua sottomissione ai confessori. La santa riconosceva nell’obbedienza la virtù cardinale della devota.

Lo status delle ilusas non era né quello coniugale né quello monastico, né quello vedovile. Si definivano “beate“, erano mistiche che si dedicavano a Dio, ma non vivevano in comunità monastiche, salvo rari casi. Erano donne povere, spesso vedove, che si dedicavano alla preghiera, all’assistenza, alla frequenza assidua della chiesa ma fuori da ogni regola, rifiutando l’autorità dei confessori perché pretendevano di poter percorrere da sé la strada della perfezione. Non di rado praticavano la medicina popolare.

Poiché castigava per dare l’esempio, il Santo Uffizio tenne sempre presente la celebrità delle accusate e la loro notorietà presso il popolo avido di meraviglioso e magico. La severità della pena appare sempre legata al carisma dell’accusata. La pena, a sua volta, non mirava a punire, ma a screditare il motivo della condanna. Nel caso delle ilusas bisognava punire atteggiamenti paganeggianti che entravano in sintonia col desiderio di soprannaturale del popolo e fermare tesi erronee che rischiavano di corrompere la fede di chi si radunava attorno a loro.

Con un atteggiamento decisamente moderno, l’Inquisizione le trattò da folli, da pazze,le giudicò soggette ad illusioni demoniache. Nei processi emerge quanto questo approccio poggiasse sull’idea che esista nella donna una predisposizione alla vanità, come se l’uomo eretico dovesse essere giudicato libero nella sua scelta, la donna invece prigioniera della sua natura. Alla dissidenza religiosa femminile veniva negata la natura di eresia, in nome di vizi intrinseci alla natura femminile. Tuttavia, mentre l’Europa protestante bruciava le streghe, il Santo Uffizio spagnolo inventò una repressione sorprendentemente moderna, né rogo, né esorcismi, ma giudizio di follia. Così se nei primi tempi l’Inquisizione spagnola accettò l’esistenza della stregoneria e la condannò con violenza, successivamente riconobbe nelle cosiddette arti magiche e nelle pratiche stregonesche semplicemente uno squilibrio mentale, l’eccitabilità di menti deboli.

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: Bartolomé Bennassar, Storia dell’Inquisizione spagnola dal XV al XIX Secolo

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