L’ingloriosa rivoluzione del 1820
Cosa fu la rivoluzione del 1820? Una setta di arrampicatori sociali, un popolo indifferente, un esercito che si sbanda prima della battaglia, generali vanitosi e parlamentari inconcludenti, il re Ferdinando in preda alla paura; continuiamo la nostra disamina con la ricostruzione degli eventi del 1820 ed il giudizio di Francesco Saverio Nitti (Scritti sulla questione meridionale, volume I, Bari 1958, pp. 23-49). Le riflessioni di Nitti seguono quelle già pubblicate di Walter Maturi e Luigi Salvatorelli.
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Caduta la repubblica napoletana del 1799 e ritornato Ferdinando I era successo un periodo di repressione e di violenza. Ma quando, travolto anch’egli dal turbine napoleonico, Ferdinando era dovuto riparare in Sicilia e il regno era rimasto ai francesi, Giuseppe Bonaparte da prima e Gioacchino Murat di poi, aveano introdotte gran parte delle leggi di Francia. Per legge del re Giuseppe nel 1806 la feudalità abolita, abolite le istituzioni fidecommissarie, sciolti i legami alla proprietà, modificato il regime dotale, sfasciata la proprietà ecclesiastica, introdotti col codice Napoleone tutti i provvedimenti che più alla classe intermedia giovavano, questa era divenuta potente a al punto da soverchiare tutte le altre.
E anche quando i Borboni rientrarono a Napoli e riconquistarono, non per virtù d’arme, ma per violenza legittimista il reame, non osarono quasi nulla mutare. Le leggi abolitive della feudalità furono mantenute; mantenute tutte le disposizioni che i re Giuseppe e Gioacchino aveano introdotte.
Senonché mentre la classe intermedia quasi dovunque era nata col traffico, a Napoli e nel reame si era formata, come ho detto innanzi, in modo diverso. Una massa enorme di curiali in città, e nelle province affituari della terra e negoziatori di danaro, eran cresciuti in potenza. Tutte le leggi adottate in cinquant’anni e più ancora non avean fatto che favorirne lo sviluppo e la potenza.
Ma ad essi non bastava. Nei regimi assoluti l’esistenza di un’aristocrazia che circondi il trono o che abbia, sia pure nominalmente, il potere nelle mani, è invincibile necessità. Così avveniva nel reame di Napoli, ove le maggiori cariche dello Stato erano dal re concesse a coloro appunto che più egli e suo padre avean depressi.
I trionfi di Napoleone e a Napoli la dominazione francese avean determinata una modificazione profonda nello stato degli animi. Ancora pochi anni prima nessuno avrebbe osato attaccare istituzioni che parevano eterne; monarchia ritenute incrollabili. Più ancora: nessuno nella scala sociale pensava elevarsi al di sopra della sua classe. Ma i trionfi di Napoleone e dei suoi generali avean sconvolte tutte le menti e pur dopo la catastrofe napoleonica era in tutti gli animi una febbre di cose nuove; nulla si credeva dovesse essere durevole, nulla si ammetteva che uomini volenterosi potessero non avere.
Nel reame di Napoli, ancora turbato da tante e sì vari vicende, la monarchia di Ferdinando I era debole e sospettosa. Avea osato – facile audacia – di far fucilare Gioacchino Murat sulla desolata spiaggia di Pizzo: ma avea conservato i generali e gli alti uffiziali dello Stato, che Murat avea spesso levati in alto di umile condizione. E mentre li avea conservati era sospettosa di essi: timorosa di espellerli tutti, paurosa di tradimenti.
I commerci eran depressi da tante lotte, impoverite la banche; le guerre numerose aveano trascinato a Napoli stuoli di persone desiderose di occupazioni civili.
L’indole meridionale, la quale attribuisce la fortuna più al caso che alla persistenza, la naturale vivacità delle genti del Sud, l’amore e la tradizione dell’otium cum dignitate, il posto o l’uffizio poco penoso, facean sperare rivolgimenti che tanti bisogni appagassero, tante ambizioni accontentassero.
La setta dei carbonari, introdotta nel regno pochi anni innanzi, si era venuta allargando. Che cosa era? Colletta la chiama società vasta di possidenti, vaga di meglio e di quiete, e questa definizione ne dite tutto il carattere. Appartenevano ad essa gran numero di benestanti delle classi medie; ma il fondo era composto di militari desiderosi di avanzamenti, di provinciali e di curiali bisognosi di impieghi, di persone le cui aderenze, la cui posizione al tempo dei francesi rendevano avverse o dubbiose del regime borbonico. Setta piena di misteri massonici, anzi diramazione massonica, che allettava le calde fantasie di giovani appunto per il suo mistero. I socie e gli aderenti si chiamavan fra loro cugini e anche buoni cugini, e fra le altre cose giuravano – il generale Guglielmo Pepe dice per rettorica – l’esterminio di tutti i re. La setta si era estesa e vi appartenevano anche persone messe ai sommi gradi dell’esercito. V’erano i risoluti che volevano una costituzione o sognavano il rovescio della monarchia borbonica; v’erano idealisti sinceri o nature avventurose; v’erano coloro che nelle vendite – così si chiamavano le singole società carbonare – cercavano come una tutela in tempi difficili, un appoggio in possibili mutamenti politici; nel maggior numero erano infine coloro che desideravano pubblici uffizi, o aspiravano a promozioni e a carriere. Si trovavano spesso insieme generali e uffiziali inferiori; – e questi eran qualche volta nella setta di grado superiore ai primi. Le vendite più attive erano a Napoli, ad Avellino e a Salerno; in quest’ultime città soprattutto.
Ritornando a Napoli, Ferdinando I in un goffo e magniloquente proclama datato da Salerno, il I maggio del 1815 avea detto ai Napoletani con assai poca precisione storica che i loro antenati avean conquistato fino al Nilo e che le loro trombe guerresche avean fatto piegare le fronti orgogliose ai Tolomei, a Filippo il Macedone, a Mitridate, a Missinissa e ad altri ancora. Dimenticando poi tanti pregi guerreschi e chiamandoli, con una metafora ardita, docili figli del Sebeto, avea promesso loro amore e perdono e, quasi queste cose non bastassero, pace, calma e abbondanza. Non avea dato costituzioni, non avea però voluto persecuzioni numerose. In cinque anni, dal maggio 1815 al giugno del 1820 la monarchia borbonica era o pareva assodata. Non avea contro di sé che una setta; avea per sé i sovrani e le corti legittimiste di tutta Europa. L’esercito regolare era forte di 34 mila uomini; inoltre le milizie civili contavano 51 mila uomini in terraferma e 29 mila in Sicilia. E poichè la pace in Europa non era da nulla turbata e i ministri, sì come accade in regime assoluto, esageravano dinanzi al vecchio re il disprezzo della massoneria carbonara ritenuta debole o inattiva, la solidità del trono pareva al sovrano e ai suoi fedeli granitica. I carbonari eran perseguitati come setta dannosa di gente ribalda; ma pericolo da essi non v’era, o si credea non vi fosse.
Fu così che scoppiò la rivoluzione del 1820; la più strana, la più incruenta, la più inverosimile di tutte le rivoluzioni che abbia avuto Napoli e forse l’Italia; rivoluzione che rimarrebbe a dirittura inesplicabile a chi si limitasse a considerarla nelle sue manifestazioni esteriori.
All’alba del 2 luglio due sottotenenti, Morelli e Silvati, e 127 sergenti e soldati del reggimento Borbone cavalleria disertarono dai quartieri di Nola, secondati da un prete Menichini e da venti settari. Si diressero verso Avellino, ove dovean ricongiungersi ad altri carbonari di Salerno. Da Nola ad Avellino sono non più che quindici o sedici chilometri. Il drappello disertore li percorse al grido di viva Dio! viva il Re! viva la costituzione! E poichè quel grido di costituzione non era ben inteso e ognuno, dice il Colletta, vi scorgeva il suo meglio, chi la libertà, chi il potere, chi la minorazione dei tributi, il popolo seguiva con simpatia e con entusiasmo. Così il drappello giunse in Mercogliano, ove Morelli pose il campo e mandò messaggio a un altro carbonaro, il colonnello De Concili, che stava in Avellino, invitandolo ad unirsi a coloro che chiedevano governo più libero.
In fondo non si trattava che di piccolo pronunciamento settario e soldatesco, al quale partecipavano meno di 150 persone, fra cui una ventina di borghesi e un prete. A soffocarlo bastava assai poco: anzi nella vita di un regno era episodio insignificante.
Quando la notizia giunse a Napoli, il re sopra ricca nave andava incontro al figliuolo ed erede Francesco, duca di Calabria, che allora entrava nel golfo, venendo in Sicilia. La notizia lo costernò, e la diserzione di pochi uomini cui potea contrapporre decine di migliaia di soldati lo scorò: volea fuggire in Sicilia, volea trattenersi sul mare e non fu poca difficoltà farlo scendere a terra.
A Napoli la setta carbonara, all’annunzio dei fatti di Nola, cominciava ad agitarsi. I ministri erano incerti; il re cercava invano di esser sereno; non si voleva affidare il comando delle truppe che dovean combattere gli insorti a generali di cui si sospettava la fede.
E mentre a Napoli si era in tante dubbiezze e si perdeva ciò che nel periglio è più prezioso, il tempo, la piccola schiera di Nola mandava dovunque messaggi, entrava trionfante in Avellino, si univa alle truppe di quella città, accampava poderosa sulle alture di Monteforte. E intanto al 3 luglio, ovunque erano settari si tentavano sollevamenti. Dopo molto esitare, tre generali mossero per diverse vie per espugnar Monteforte e snidarne i ribelli; uno scontrò il nemico il giorno 4; potea vincere e si ritirò. Un altro non giunse il giorno 5 nemmeno a vederlo, poichè i soldati fuggirono. Il terno non si mosse e preferì trattar di lontano. I soldati non combattevano, poichè non avean fiducia nei capi; i capi non l’avean nei soldati; il re diffidava di tutti.
Il generale carbonaro Guglielmo Pepe, che il giorno 3 accettava per speranza di grande premio di andare a combattere i ribelli, sapendosi sospettato e temendo di essere arrestato fuggì da Napoli insieme al generale Napoletani, provocò diserzioni, andò a mettersi a capo degli insorti. Così un regno tranquillissimo il giorno I luglio, il giorno 5 era tutto in fiamme.
Il re riuniti a consiglio i suoi timidi ministri, non trovò appoggio: non si pensò ad altro che a cedere, e il movimento non parve possibile frenare se non seguendolo.
Fuggito il general Pepe da Napoli, disertate molte delle milizie, le altre incerte, l’audacia di qualche settario non ebbe limite.
La notte del 5, sul tardi, cinque carbonari si presentarono alla reggia e chiesero audacemente di parlare col re, come ambasciatori di causa pubblica. Uscì sollecito il duca d’Ascoli. L’uno dei cinque disse lo scopo dell’ambascerìa; il popolo era in arme, la setta carbonara e i cittadini tutti volevano la costituzione. Si attendevano le decisioni del sovrano. Il duca d’Ascoli entrò dal re, riferì tutto e, quando uscì, annunziò che il sovrano aveva concessa la costituzione.
E il capo dei settari: – Quando? – Subito. – Ossia?… – Fra due ore.
Con aria risoluta uno dei cinque cavò l’orologio dalla tasca del duca d’Ascoli, mostrò il quadrante ai compagni e disse: – E’ un’ora dopo mezzanotte: alle tre la costituzione sarà pubblicata. – E andarono via tutti.
All’alba del giorno 6 uscì un editto del re che annunziava la nuova costituzione. Così in quattro giorni furono mutate dalle fondamenta le basi politiche di tutto un reame.
Altro editto nominò il principe ereditario Francesco duca di Calabria, vicario generale del regno: il re avea o disse di avere bisogno di riposo. La costituzione, provvisoriamente concessa, fu quella di Spagna del 1812.
A ottenere una così profonda trasformazione non si era versata stilla di sangue: che anzi era bastato a pochi minacciare, a molti fuggire.
La costituzione fu causa di gioia quasi generale. Molti vedevano la fine di ogni abuso, la riduzione dei tributi e tutti erano lieti che un così notevole mutamento fosse avvenuto quasi senza contrasto.
Così Napoli divenne paese costituzionale.
E di un tratto, mutato il regime, mutarono anche le opinioni. La carboneria, temuta fino allora e odiata, divenne oggetto di ogni lode; i pochi rivoltosi di Nola, trattati fino a qualche giorno prima come banditi, considerati eroi e degni di somma lode.
Il regime costituzionale, introdotto il 6 luglio del 1820, durò fino al 23 marzo del 1821; nacque perchè l’esercito del re assoluto si sbandò, mandato a combattere contro i ribelli; morì, perchè i soldati del governo costituzionale, mandati a combattere contro lo straniero, si sbandarono prima di combattere.
Tutto quanto fu fatto in quei nove mesi rivestì sempre carattere di spettacolosa teatralità: tutto era teatrale: l’esercito, i generali, la carboneria, il Parlamento.
Non si amano molto se non le cose le quali si conquistano con difficoltà: e un partito è tanto più forte quanto maggiori sono le difficoltà e le sofferenze che ha dovuto incontrare prima della vittoria.
La costituzione di Napoli, ottenuta quasi senza lotta, doveva perire senza resistenza. A capo dell’esercito costituzionale si era messo in Avellino il generale Guglielmo Pepe, la più complessa natura meridionale che io possa immaginare: uomo che avea dell’eroe e del ciarlatano, vero generale spagnuolo, che a una vanità morbosa e a una leggerezza ancor più grande, univa uno straordinario ardimento. Fra tante cose buone e cattive, una cosa era soprattutto: ardentissimo di libertà e insofferente di vincoli. L’eroica difesa dei Venezia, nel 1848, coronò in lui nobilmente in vita, in cui vi erano troppi pronunciamientos e troppe leggerezze.
Ora il generale Pepe, seguendo la sua natura, amante dei grandi spettacoli e della teatralità, volle, bandita la costituzione, entrare a Napoli con pompa solenne a capo dell’esercito costituzionale, un esercito che, diventato settario, si era anche più abbassato nella disciplina e ove i gradi della setta si confondevano con quelli delle armi.
Il 9 di luglio, a una sola settimana di distanza dalla rivolta di Nola, fu decisa la solenne entrata.
Il re era in letto, malato di reumatismi e forse più ancora di paura. Il vicario, in abito da cerimonia, nella stanza del trono, circondato dai principi, dai generali e dai gentiluomini di Corte, attendeva i rappresentanti delle schiere.
L’esercito entrò in Napoli con gran pompa.
Precedeva tutti il dreppello dei disertori di Nola, chiamato, dopo il successo, squadrone sacro. Seguivano poi le bande nazionali e quindi il generale Pepe, che aveva a fianco il generale Napolitani e il colonnello De Concili. Pietro Colletta, fine osservatore, nota che il generale Pepe “sconciamente imitava le fogge e i gesti di re Gioacchino”. Venivano poi tutte le altre milizie soldate e civili. E chiudeva il corteo uno spettacolo dei più strani. L’abate Menichini, vestito da prete, armato da guerriero, guarnito di tutti i colori della setta carbonara, precedeva a cavallo settemila settari, fra cui v’erano uomini d’ogni condizione: molti preti, straordinario il numero degli avvocati. Il vicario si affacciò a un balcone della reggia e comontà che ognuno si attaccasse al petto i colori della setta carbonara, il rosso, il nero e il turchino e le coccarde, fatte delle stesse mani dalle principesse, vennero distribuite largamente.
TAnto poteva il timore sopra anime deboli.
Vi fu solenne ricevimento a Corte, pomposi discorsi del re, del vicario e del generale Pepe e questi non trascurò di baciare la mano a tutti, al re, al vicario, ai principi, alle principesse, e assunse l’alto ufficio di capitano generale dell’esercito, che era o parea dovuto a chi ritenevasi la vera anima del carbonarismo.
Il resto non va raccontato.
La storia di Napoli dalla metà di luglio del 1820 al marzo dell’anno seguente è nota: a che ripeterla? Pure le cause di sì facile trionfo della idea liberale, le cause per cui il regime costituzionale sì facilmente introdotto non trovò quasi difensori nell’ora del periglio, son cose che io vorrei approfondire se la breve ora che mi avete accordata concedesse.
La rivoluzione del ’20 fu opera essenzialmente dei carbonari, e i carbonari noi abbiamo visto chi fossero. Carbonari divennero, dopo il luglio, tutte o quasi le classi medie, principalmente i curiali.
Una effemeride, che allora avea molta autorità, la Minerva, diceva: “Esiste nel Regno di Napoli la libertà? Si può facilmente rispondere che essa esiste di nome, ma non di fatto. Esiste una setta di carbonari? Ella esisteva prima del 6 luglio; da quell’epoca memorabile in poi la setta è divenuta la nazione”.
Nell’Italia continentale del Mezzogiorno, ove l’aristocrazia era fiaccata anche prima del 1806, l’opposizione al movimento carbonaro non fu viva.
Ma la Sicilia avea ben diverse condizioni. La feudalità in quel paese, non distrutta, era anzi potente; vive forse sotto mutate forme in alcune province tutt’ora. La classe intermedia, formatasi con difficoltà, non era ancora sì forte da aspirare al governo. Gli avvenimenti di Napoli non potevano dunque essere seguiti in Sicilia. L’isola volle una costituzione anch’essa, ma una costituzione autonoma e di carattere feudale: l’aristocrazia si agitò, pensò perfino di restaurare il Parlamento del 1812, in cui sedevano 61 pari spirituali, rappresentanti la grande proprietà ecclesiastica, e i 124 pari temporali, rappresentanti la grande proprietà feudale. La rivolta di Sicilia sciupò parecchi generali napoletani, ma fu soffocata. Il Parlamento napoletano e la setta carboanra sentivano che non era possibile affermare la costituzione di luglio senza vincere le risstenze della Sicilia. Le resistenze furono infatti vinte; ma la vittoria, facile del resto e non contrastata a lungo, sciupò molta parte delle non grandi energie di cui disponeva il nuovo governo costituzionale.
Se v’è cosa che caratterizzi la carboneria e i fautori del regime costituzionali del 1820 è l’avversione che dimostrarono in tutti i loro atti per l’aristocrazia fondiaria. Quando si dovettero fare le elezioni per i membri del Parlamento, nei comizi ogni forma di violenza fu usata contro i nobili, cui fu spesso imepdito per forza e con male arti di votare.
Dei 72 rappresentanti delle province meridionali 2 soli eran nobili; gli altri quasi tutti avvocati, preti, magistrati e proprietari, inscritti alla carboneria. La Sicilia mandò invece più tardi, in gran maggioranza, nobili e preti.
I giornali e le effemeridi annunziavano l’apertura del Parlamento con frasi solenni. Uno di essi diceva: “I giorni del primo entusiasmo sono ora al loro termine: la stagione dell’intelletto si avvicina con l’apertura del Parlamento; la crisalide è già per rompere l’involucro che nasconde l’angelica farfalla…”.
L’angelica farfalla venne fuori, e la stagione dell’intelletto si aprì con una cerimonia solenne. Il re, il duca di Calabria, i principi intervennero con gran pompa, pronunziarono discorsi e giurarono sugli evangeli, fra le grida di popolo festante, il rispetto della costituzione.
Profferì lungo il discroso il presidente Matteo Galdi, avvocato, e quindi amante della parola e della iperbole.
L’arte retorica non possiede tanti traslati e tante figure quanti ne usò il presidente Galdi.
Dei Borboni di Napoli si può dare qualunque giudizio; una cosa però non può essere messa in dubbio: la loro incapacità alle armi e la mancanza di ogni attitudine guerresca. In fondo a tutte le loro colpe e a tutti i loro torti, non è che un sentimento solo: la paura. Fu essa che li rese spesso crudeli, sempre sospettosi.
Ora il presidente Galdi, nel suo iperbolico discorso, dopo essersi rivolto al re, al duca di Calabria e aver citato tutti i tropi che furono inventati, volle elogiare anche i figli del figlio del re, futuri guerrieri della patria: “Uno ne crescerà certamente fra essi che, di unita alle arti di pace, saprà coltivare quella della guerra. Egli accoppierà al brillante coraggio e all’alma intrepida di Francesco I e di Enrico IV il sapere militare del gran Condé; e se, tolga il cielo l’augurio, sarà chiamato a combattere, lo vedremo circondato dai bellicosi Marsi, dai Dauni, dai Sanniti, da tutti i popoli della Magna Geecia e della Trinacria alle frontiere del regno, come l’Angelo del Signore, con l’adamantina spada nel pugno, stare alla difesa del paradiso terrestre”.
Quel fulmine di guerra si chiamò Ferdinando II!
La semplice esistenza del Parlamento, secondo il presidente Galdi, avrebbe fatto pullulare i grandi. Proseguiva infatti: “Le pagine del Codice di Astrea rimarranno immuni da qualunque macchia, e custodite da incorruttibili sacerdoti e il potente braccio e la volontà della Maestà Vostra e le vigili cure del Parlamento Nazionale, assicureranno sì bel retaggio fino alla nostra più remota posterità. Risorgeranno i Zeleuci e gli Architi, gli Archimedi e i Tullii, onore delle nostre regioni e del genere umano”.
Strano Parlamento, ove tutto era iperbolico. Le sedute si tenevano in una chiesa, e i deputati parlavano per farsi applaudire dalle tribune, che quasi partecipavano alla discussione e appalaudivano sempre i più enfatici e i più violenti. Mentre la costituzione e la patria erano in pericolo, si discutevano gli argomenti più inutili: se il nome di Napoli mutar dovesse in Partenope, se mutar si dovessero i nomi dei popoli delle province e chiamarli, come nell’antichità classica, lucani, irpini, marsi, sanniti. Si facean citazioni classiche, e gli animi si accendevano per cose futili.
L’opera legislativa, quando fu efficace, non ebbe per scopo che di deprimere l’aristocrazia: i beni soggetti a maiorascato furono dichiarati liberi, molti provvedimenti furono proposti contro la feudalità in Sicilia.
Ma il Parlamento era schiavo della carboneria; e la carboneria, a sua volta, era agitata da una turba di spostati, desiderosi d’impieghi. Chi poteva si trasformava volentieri in impiegato. Perfino l’abate Menichini, che avea secondato gl’insorti di Nola, che era entrato a Napoli a capo dei ribelli carbonari, chiedeva e otteneva impiego non nella Chiesa, non in filantropiche istituzioni, ma nella pubblica sicurezza.
La carboneria avea spezzata, se pur ve n’era, ogni disciplina nell’esercito trasformando i capi in settari e sottoponendoli spesso ai loro subalterni. Altri abusi compieva con ostentata prepotenza. Una notte alcuni carbonari si recarono in casa di un ex direttore di polizia, uomo onesto e sinceramente amico dei Borboni e, sotto gli occhi della moglie e dei figliuoli, lo trafissero con 42 pugnalate. Un carbonaro, arrestato per atroce crimine, passando per la via di Toledo, chiamò in aiuto i cugini della carboneria e fu sciolto. Altri abusi la carboneria commetteva impunemente, quasi sfacciatamente, per mostrare la propria potenza. Allora non vi fu più sicurezza per alcuno. I timidi fuggirono da Napoli, coloro che erano più in alto temettero, chi si salvò ricoverandosi all’estero, chi in campagna.
La situazione divenne gravissima. Il popolo, ignorantissimo e depresso, seguiva tutti i mutamenti senza coscienza, sperando sempre in qualunque mutamento per il re o contro il re; l’aristocrazia avversa; l’esercito demoralizzato; la carboneria, che rappresentava gl’interessi della classe media, preda delle concupiscienze di persone desiderose di lucrosi impieghi. E intanto il re chiudeva nel cuore sensi di timore e di odio: avea per timidità, anzi per viltà, giurata la costituzione, sperava per tradimento abolirla.
Fu così che scrisse segretamente ai re congregati a Troppau, e nel novembre giunsero lettere dei tre sovrani che lo invitavano a Laybach, per discutere in un Congresso le questioni politiche dello Stato di Napoli.
Il Parlamento non volea farlo partire. Fu grande agitazione in tutta la città. Si protestava che il re volesse adottare nuova costituzione. Si gridava d’ogni parte: La costituzione di Spagna o la morte. Nessuno più tardi volle morire per la costituzione di Spagna: ma quando il pericolo si crede lontano, i più dimidi sono sempre per i mezzi estremi.
Il re si rassegnò a fare ciò che gli si chiedeva e partì, fingendo sempre fedeltà a una costituzione che gli era stata imposta dalla paura, e che era destinata a non trovare chi la difendesse.
A Troppau parlò infatti contro la costituzione, a gente che quanto e più di lui temeva l’espandersi del movimento liberale: e fu deciso che un esercito austriaco fosse mandato a Napoli a rimettere l’ordine.
Il Parlamento napoletano non esitò a dichiarare la guerra. La voleva soprattutto il generale Pepe, che riteneva le truppe napoletane invincibili; la voleano i migliori che, con pietoso infingimento, dicevano il re prigioniero e forzato lo scritto; la chiedevano a gran voce i carbonari. Accondiscese il vicario perché debole e incerto. E la guerra fu proclamata non per valore di popolo, nemmeno per vaghezza di somma lode come dice Colletta, ma per leggerezza.
La carboneria volle fare opera utile e riunire a banchetto anche i generali che sapeva a sé avversi, per cementare l’unione nel momento del pericolo. A quel banchetto Gabriele Rossetti improvvisò versi pieni di entusiasmo. A un tratto rivolgendosi a tutti i generali che gli erano intorno, chiese chi fra essi dovesse essere Milziade. FU un momento di silenzio e di angoscia: poiché ognuno temeva che Milziade dovesse essere un collega, e ognuno credeva di poter essere. Allora il Rossetti, nell’angosciosa aspettativa di tutti, con straordinaria iperbole replicò: Tutti saran Milziadi! Fu un delirio di applausi: ma di Milziadi poco tempo dopo non ve ne fu un solo.
L’esercito napoletano contava allora quarantamila uomini, dei quali dodicimila in Sicilia. Fu deciso di mandare contro gli Austriaci trentaduemila soldati e quarantaduemila uomini di nuova leva. Gli Austriaci erano in tutto quarantatremila. La vittoria delle truppe costituzionali sembrava dunque probabile. Vi erano forse molte milizie nuove: ma altre avean già pratica di guerre. Le nuove, d’altronde, parea volesser gareggiar con le antiche.
Il generale Pepe credea le milizie napoletane saldissime.
Ma come l’esercito austriaco si avvicinava a Napoli, un mutamento strano avveniva. Il popolo che avea creduto che il mutato regime avesse dovuto portargli maggiore prosperità e che, per colpa degli avvenimenti, non avea avuto niente altro che nuove gravezze, si mostrava indifferente; tramavano i partigiani del regime assoluto; i capi della setta carbonara, che si sentivano in pericolo, avean perduta l’audacia.
Il generale Pepe fece annunziare solennemente nelle gazzette di Napoli che avrebbe il giorno 7 di marzo dato battaglia e vinto. Strano generale e strani uomini, che annunziavano le battaglie, anzi le vittorie a giorno fisso!
E la battaglia fu data infatti il 6 marzo. Ma le milizie, o poco fiduciose, o nuove, o incerte, al primo urto non resistettero. I soldati, anche prima di aver contattato col nemico, fuggirono, e la voce dei capi non potè trattenerli.
Il generale Pepe giunse a Napoli prima che le fuggenti schiere giungessero. Parlò, esortò, chiese nuovi soldati, propose nuovi piani. Ma, poi che vide tutto perduto, fuggì all’estero.
Allora non vi fu ritegno. Uscirono subito nuove coccarde, in onore del governo assoluto. Il Parlamento, congrega poco tempo prima altiera, desiderosa anzi di battaglia e di vittoria, fece indirizzo al re umile, sottomesso.
Per una crudele ironia della sorte le truppe che prima eran fuggite dinanzi al nemico eran quelle di Avellino e di Foggia: paesi che primi nel luglio dell’anno precedente avean voluta la costituzione.
Di tanti che parean destinati a compiere grandi gesta, che volean morire per tante cose, al momento del periglio non si trovò quasi alcuno. La setta immensa taceva. I deputati, eloquenti in pace, dinanzi al pericolo muti, disertavano il Parlamento. All’ultima ora, quattro giorni prima che il nemico fosse entrato, solo un piccolo numero osò votare una protesta del deputato Poerio, protesta ove ancora si ricorreva alla solita pietosa finzione, e del re e del vicario si parlava come di uomini la cui volontà fosse stata coartata. Ma almeno qualcuno osò protestare, sia pure timidamente, nell’ora solenne del pericolo.
Il 23 marzo entrarono a Napoli le truppe austriache, e il regime costituzionale finì da quel giorno di fatto.
E fu iniziato un periodo di violenze, di persecuzioni e di crudeltà. Moriron tanti per esse, che se avessero voluto incontrar morte più bella di fronte al nemico, il regime costituzionale non sarebbe così malamente finito…