L’imperialismo di Tucidide
L’analisi critica della Storia, avviata nel 1846 da F. W. Ullrich nell’idea che l’autore avesse scritto l’opera in due tempi, la prima parte a cominciare dal 421 e la seconda dal 404, dando vita ad un lavoro disomogeneo, si è arricchita di esami più sottili e circostanziati, tutti tendenti a rilevare il disordine e la frammentarietà della stesura nell’ambito stesso dei singoli libri, ma è anche maturata una visione nel complesso unitaria della Storia che si sarebbe composta nei suoi nuclei essenziali parallelamente allo svolgersi della guerra con una fondamentale continuità. La questione delle dissonanze è rimasta aperta e appaiono interessanti le posizioni di chi, come Momigliano, valutò le incoerenze come il frutto d’un lavoro iniziato come apologia della potenza ateniese e divenuto poi una spiegazione di una rovina politica che aveva sorpreso lo stesso autore. Si sarebbe così avuto, non un rimaneggiamento della narrazione storica, ma l’affiorare, nel corso della composizione, di un interesse nuovo, quello per la sconfitta di Atene.
Tucidide, già adulto e non estraneo alla politica, all’inizio del conflitto, non riuscì, da stratego, a salvare la piazzaforte tracia di Anfipoli, nel 424, dall’attacco spartano guidato da Brasida. Pagò lo scacco subito con l’esilio ventennale, dopo un processo per alto tradimento. Visse dei ricavi provenienti dai fondi familiari di Tracia e i dei redditi delle miniere d’oro di Skaptè Hyle. Poté in tal modo affrontare le spese per viaggi e studi nei quali raccolse il materiale della Storia.
Atene, nel cinquantennio che precedette la guerra, aveva guidato un’ambiziosa espansione e la mentalità imperialistica continuò a pervadere la sua società negli anni dello scontro. L’ambizione ateniese era sbocciata con Temistocle. Fu essa che fece innalzare le mura e diede alla città tutti i lineamenti di un centro sovrano che esercitava la talassocrazia attraverso la flotta, il dominio delle isole, il denaro. Con la sola battuta d’arresto dell’azione di Cimone, momentanea intesa con Sparta, l’imperialismo aveva sempre dominato la politica ateniese. Alcuni storici, per esempio Grundy in Thucydides and the history of his age, hanno mostrato quanto Tucidide non metta in luce gli scopi essenzialmente economici del dominio di Atene, il controllo cioè delle vie del grano, l’acquisto di mezzi di sussistenza per la classe povera, ma non è inverosimile pensare che per gli ateniesi contasse più il prestigio che l’interesse economico. Nel discorso che Alcibiade fuoriuscito tiene all’assemblea di Sparta, la Sicilia è presentata infatti come una tappa di una più ampia conquista e il grano è nominato come ultimo motivo, dopo il legno per le navi e le ricchezze dell’isola. Anche l’annessione di Melo avviene poiché “non aveva voluto obbedire”, una motivazione tutta incentrata sul prestigio. Il tratto psicologico della politica ateniese è l’esercizio dell’autorità e il fatto economico sembra un accessorio. De Romilly in Thucydide et l’imperialisme athenien, conclude dunque che la città antica aveva “qualcosa di più spontaneo, di più illogico dello stato odierno”.
Questo sentimento imperialistico riverbera in Tucidide. Il sostegno alla guerra, il rifiuto d’abbandonare Potidea, di restituire autonomia ad Egina, d’abolire il decreto che bloccava il commercio di Megara, il sostanziale accordo con le posizioni di Pericle, quindi l’idea di una guerra da giocarsi in mare al riparo da avventate prospettive di espansione, lo conferma. Tucidide non tace come Atene abbia esercitato un impero su alleati autonomi né maschera l’ostilità suscitata nell’Ellade, non parla invece delle ingiustizie e delle repressioni esercitate dalla città né delle prerogative che essa si arrogò in campo politico e giudiziario. Accetta il diritto della forza, come traspare dal dialogo dei Meli, e aderisce integralmente all’imperialismo ateniese.
Autore articolo: Angelo D’Ambra