L’esploratore Antonio Cecchi

Nato a Pesaro il 28 gennaio 1849 da famiglia di negozianti marittimi, Antonio Cecchi studiò all’Istituto Nautico di Venezia. In lui esplose il fascino dell’esplorazione quando, in uno dei suoi viaggi, nel 1876, approdò a Zeila per fornire soccorso ad Orazio Antinori diretto allo Scioa, regno etiope.

Cecchi non tardò ad aggregarsi ad una spedizione condotta da Sebastiano Martini Berardi che, sul finire dell’anno seguente, toccò Liccé capitale dello Scioa. I viaggiatori furono solennemente ricevuti dal re Menelik, vassallo e tributario dell’Abissinia. Assistitio da Guglielmo Massaia che fungeva da interprete. I viaggiatori portarono in dono a Menelik una collezione completa delle uniformi del regio esercito ed il re, senza capire la loro utilità, li distribuì ai sacerdoti abissini, perchè li indossassero nelle cerimonie del culto. Il 3 luglio 1878, Antonio Cecchi ripartì verso la terra dei Galla ed il regno del Ghera sulle frontiere del Caffa. Fu un viaggio ricco di avventura e pericoli, segnato dalla morte del Chiarini e dalla prigionia di Cecchi presso la regina Ghennè. L’italiano fu liberato solo grazie alle pressioni di ras Adal, re del Goggiam, alla cui corte era un’altro insigne esploratore italiano, Gustavo Bianchi. Dopo cinque anni rientrò in un’Italia che da tempo lo dava per morto. Raccontò tutte queste avventure nell’opera “Da Zeila alla frontiera del Caffa”. Rientrato in patria, Antonio Cecchi si ritrasse nella sua Pesaro, ove per due anni lavorò a ciò che sarebbe divenuta l’opera “Da Zeila alla frontiera del Caffa”.

Nel 1885 il Cecchi accompagnò a Massaua la prima spedizione militare italiana, quella guidata dal colonnello Tancredi Saletta. Dal Mar Rosso si diresse quindi a Zanzibar per concludere un trattato di commercio col sultano Said Barghash e che segnò il principio delle iniziative italiane sulle sponde dell’Oceano Indiano. Poi si portò in esplorazione sulle foci del Giuba ed il re lo volle console in Aden ed a Zanzibar. La sua vita però si concluse tragicamente con l’eccidio di Lafolé, quando Cecchi non aveva che quarantasette anni.

Si era portato con la sua carovana commerciale a Mogadiscio per stabilirvi la società commerciale italiana del Benadir. Giunse lì col Volturno del comandante Francesco Mongiardini il 23 novembre del 1896 e reclutò gli uomini per esplorare il fiume Uebi Scebeli. Due giorni dopo partì in compagnia del conte Ferdinando Boglia, del comandante della regia nave Staffetta, Ferdinando Maffei, del Mongiardini e del Direttore della Dogana di Mogadiscio, oltre che da una decina di ufficiali a cavallo. Li scortavano una settantina di ascari armati di fucili Vetterli. Dopo cinque ore di marcia la carovana, percorsi circa venti chilometri da Mogadiscio,si fermò per rifocillarsi. Era intenzione di Cecchi riprendere il cammino prima dell’alba, ma i somali, avvisati della presenza degli italiani, assalirono improvvisamente l’accampamento, uccidento sei ascari. Seguì a quel primo attacco un suono di corno ed un secondo attacco respinto. Fatto giorno, la carovana ripiegò su Mogadiscio con continui scontri a fuoco coi somali. Furono molti i morti disseminati lungo il tragitto. I cavalli, fiaccati alla marcia e feriti dalle frecce nemiche, erano stremati. L’intero contingente alla fine si arrese, ma nessuno fu graziato. Dei diciotto ascari e tredici italiani fin lì sopravvissuti, nessuno si salvò. Furono tutti ammazzati a sangue freddo con gravi mutilazioni. L’eccidio ebbe episodii raccapriccianti. Il comandante Maffei fu ferito alla testa da un colpo di giavellotto, e ormai morto fu sventrato dalla lancia di un somalo. Di Antonio Cecchi, invece, non fu trovato neppure il corpo, ma solamente la testa che ne era stata violentemente troncata.

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: P. Vergo, Annali d’Italia: storia degli ultimi trent’ anni del secolo XIX, Volumi 6-7; La commemorazione di Antonio Cecchi a Pesaro in “Rivista Coloniale” anno V, Serie II, 1910

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