L’esperienza dell’esercito francese da Sedan all’Algeria
Pubblicata in Francia come La République et son armée nel 1963, ed edita in Italia da Il Saggiatore quattro anni più tardi con l’indovinato titolo Le Armi ed il Potere, questa interessante opera del giornalista, studioso ed esperto di politica estera, Paul-Marie De La Gorce, ha il pregio di mettere in prospettiva l’istituzione militare francese e gli uomini che la hanno caratterizzata, attraverso momenti cruciali dell’evoluzione storica, a cominciare dalla debacle del 1870, passando per l’Affaire Dreifus, il dramma delle due guerre mondiali, fino alle più recenti esperienze dell’Indocina e dell’Algeria.
Come suggerisce il titolo italiano il libro si concentra sul rapporto tra l’Esercito, le istituzioni politiche, e la società civile tracciando un percorso evolutivo che come in un climax condusse a “quella tentazione di fronda nei confronti del potere che rimaneva nel cuore di tanti ufficiali, isolati moralmente e materialmente in seno ad una società di cui non condividevano per lo più né le idee, né le maniere, né i costumi”.
Sono proprio gli ultimi capitoli di questa lunga cavalcata a raccontarci uno degli aspetti più interessanti di quest’opera, con le esperienze indocinese ed algerina.
La Francia, che a partire dal 1940 diveniva concettualmente una delle ultime appendici della penisola europea, sino ad allora aveva sempre concepito sé stessa come un tutt’uno con i suoi territori africani. Prospettiva che peserà soprattutto negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale. Un conflitto mondiale che per la prima volta aveva visto l’esercito ribellarsi alle istituzioni politiche. La guerra aveva assunto per la prima volta una dimensione individuale a cui ciascuno parteciperòdovendo scegliere secondo la propria coscienza e non in virtù di una decisione collettiva emanata dallo Stato, come era stato in precedenza. “L’ora degli individui” come sottolinea De La Gorce “non si concluderà tanto presto. Altri ancora più tardi si appelleranno a valori superiori a quello dell’obbedienza verso lo stato e si lasceranno tentare da altre ribellioni”.
È quanto maturerà appunto in Indocina e si compirà al termine dell’esperienza algerina. Forse per questo le pagine dedicate da De La Gorce a queste due esperienze sono certamente le più efficaci, quelle capaci di suscitare le più profonde riflessioni in chiunque voglia accostarsi a questi temi.
L’esperienza della lotta contro i nazionalismi nei paesi emergenti si congiunse e si saldò con quella contro il comunismo internazionale e l’anticolonialismo che vennero definitivamente associati tra loro. La guerra d’Indocina in particolare segnò probabilmente per l’esercito francese ed indirettamente per tutta la nazione il punto di partenza di una vera e propria rivoluzione. De La Gorce, anche attraverso i numeri, ci rappresenta come e quanto questa particolare vicenda segnò quasi esclusivamentei quadri dell’esercito francese, ufficiali e sottufficiali tra i venti e i quarantacinque anni, come uno spartiacque con il mondo degli ufficiali generali che non ebbero mai esperienza diretta di quella guerra in tutta la sua intensità.
“Isolato nella guerra, l’esercito guardava con rancore, di lontano, il paese che sembrava averlo dimenticato. Esso provava quasi fisicamente la sensazione che la guerra d’Indocina fosse estranea all’opinione pubblica francese. Ogni ufficiale che tornava dall’Estremo oriente faceva una gran fatica a far comprendere alla sua famiglia, ai suoi amici, alle sue conoscenze, la lotta che stava conducendo, la natura stessa di questo strano conflitto nel quale il rapporto di forze non sembrava avere alcuna conseguenza sull’esito reale dei combattimenti. I sacrifici inauditi dei quadri e delle truppe, in un clima durissimo, contro un avversario senza volto, sembrava che non commuovessero nessuno in Francia. La stampa lasciava il pubblico in una relativa ignoranza sulle reali condizioni della guerra. L’Indocina e la Francia metropolitana sembravano appartenere a due mondi diversi”.
È adesso che comincia a svilupparsi quel sentimento di rivolta, per ora ancora in nuce, ma a mala pena dissimulato, contro i capi militari troppo vicini al potere politico e ritenuti responsabili, come il potere politico stesso, degli insuccessi della guerra.
Si tratta di quel sentimento che porterà l’esercito alla rivolta in Algeria.
Sentimentalmente l’esercito era molto legato all’Africa del nord. Per la maggior parte dei quadri militari il Maghreb rimaneva quel “santuario” nel quale l’esercito godeva di tutto il prestigio delle nobili e potenti istituzioni, mentre sul territorio metropolitano doveva rassegnarsi alla normale vita di guarnigione. I comandanti militari che avevano affrontato il Viet Minh sapevano ora quanto fosse impossibile controllare con l’unico ausilio della forza un movimento popolare senza pagare un alto prezzo. Affrontare l’insorgente movimento nazionalista algerino alla stessa maniera di quello vietnamita avrebbe condotto alla stessa identica conclusione. Ma l’Algeria non eraun territorio d’oltremare, era a tutti gli effetti un dipartimento francese, la 10° regione militare affidata al 19° corpo, lì l’esercito aveva le stesse funzioni che sul territorio metropolitano.
Non era possibile lasciare quel territorio al nazionalismo algerino che agli occhi dei militari francesi assumeva le sembianze di una mera propaggine del comunismo internazionale. Quel comunismo che avevano già affrontato in Vietnam. Ora ritrovavano un volto familiare in un nemico senza numero e senza divisa, indistinguibile dalla popolazione, un nemico che sapeva unire la guerriglia alla pratica del terrorismo urbano, che non separava mai l’azione politica da quella militare. Una maniera di fare la guerra che era stata formalizzata da Mao Tse-Tung nella sua Strategia della guerra rivoluzionaria in Cina.
I soldati francesi avevano conosciuto ed imparato sulla loro pelle il valore in battaglia delle idee. Erano rimasti affascinati dalla teoria e dalla pratica della guerra rivoluzionaria. Una scoperta vissuta quasi con entusiasmo, tanto che alcuni vennero addirittura accusati di simpatie per i “metodi comunisti”. Sapevano che ora lo scontro avveniva non per occupare territori, bensì per conquistare l’animo delle popolazioni.
Sapevano di partire svantaggiati per il raggiungimento di questo obiettivo e si organizzarono per battere l’avversario su due terreni in cui la sua superiorità sembrava decisiva: l’informazione e la sorpresa. Il lavoro realizzato su questi piani dall’esercito francese in Algeria fu immenso. Tuttavia anche se nel corso del conflitto l’Esercito francese riuscì a togliere al nemico il monopolio dell’informazione e della sorpresa grazie all’utilizzo razionale della suddivisione del territorio per quadrati, delle riserve, e dei trasporti non riuscì mai a modificare lo svantaggio che aveva nell’ “animo della popolazione” che costituiva l’arma fondamentale dell’insurrezione.
“Questo esercito” scrisse il colonnello Barberot “che aveva incontrato nel 1939 molte difficoltà nel decidersi ad abbandonare i suoi cavalli… a sporcarsi le mani nella manutenzione dei carri e delle autoblindo, che aveva finito per abituarsi all’odore dell’olio e della benzina… ecco che si immergeva in una guerra in cui i carri e le autoblindo stavano per seguire i cavalli nel grande museo retrospettivo dell’esercito. Si era cominciato a fargli comprendere che era necessario occuparsi della popolazione, adoperare gli antibiotici e i sulfamidici, occuparsi del controllo e del censimento della popolazione, darle lavoro, curare la manutenzione dei bulldozer, dei ponti e delle carreggiate, insegnare alla popolazione ad amministrarsi, intervenire nella politica locale, e così via; gli si chiedeva, insomma di trasformarsi in una domestica tuttofare della nazione”.
Comprendendo che l’indipendenza rappresentava allora una tesi tra le più forti tra quelle capaci di sollevare i popoli, gli ufficiali francesi cominciarono a pretendere che la Francia fosse in grado di contrapporre a quella un’idea equivalente, capace di compensare nell’animo della popolazione la seduzione dell’indipendenza. Questa divenne l’idea dell’ “Algeria francese”, l’integrazione completa dell’Algeria alla Francia, la concessione ai musulmani di tutti i diritti civili e politici di cui godevano i cittadini francesi, il definitivo riconoscimento della loro cittadinanza francese.
Le esitazioni della metropoli proprio mentre perdurava la guerra sovversiva in cui le manovre politiche, le campagne di stampa, i movimenti d’opinione e le mosse diplomatiche avevano un peso non minore dei carri armati, dell’aviazione o dell’artiglieria, condussero parte dell’esercito a passare all’aperta ribellione.
Si trattò probabilmente di un episodio decisivo nella storia di Francia, il ritorno di De Gaulle e la sua posizione prima equivoca e poi sempre più decisa sulla strada dell’indipendenza dell’Algeria portarono gli uomini che si erano impegnati direttamente anima e copro in quel conflitto a scelte decisive.
Comprendere e capire quei momenti diviene fondamentale anche oggi, malgrado tutte le trasformazioni successive, la fine delle ideologie, e i grandi mutamenti che hanno coinvolto le forze armate dalla caduta del muro di Berlino, proprio in prospettiva di un ritorno ad un ruolo centrale dell’esercito in Europa, nella politica internazionale, con tutte le peculiarità del caso.
Autore: Giuseppe De Simone