L’approvvigionamento idrico della Napoli spagnola
La leggenda nera del malgoverno spagnolo nel Regno di Napoli trova una delle più evidenti smentite nella risoluzione del complesso problema della carenza idrica della capitale con la costruzione dei Regi Lagni, su iniziativa statale, e quella dell’Acquedotto di Carmignano, su iniziativa privata.
Certe esigenze erano già emerse sotto gli aragonesi. Durante il breve regno di Alfonso II, infatti, si ipotizzò il restauro dell’acquedotto d’età augustea, meglio noto come Acquedotto Claudio, successivamente si tentò la canalizzazione delle acque dell’area ai piedi del Monte Somma. Nel giro di pochi anni, però, feudatari ed ordini religiosi proprietari dei mulini napoletani e protagonisti dell’industria della macerazione di lino e canapa, ottennero dal viceré Raimondo de Cardona, l’assegnazione di metà del flusso idrico convogliandolo nell’alveo della Corsèa, sfociante a mare all’altezza del ponte della Maddalena, sottraendo ancora acqua alla popolazione.
Pedro de Toledo fronteggiò il vertiginoso aumento demografico, ed il conseguente incremento del fabbisogno d’acqua sia ad uso dei privati che dei mulini per le esigenze dell’Annona, riprendendo il progetto aragonese di restauro dell’Acquedotto Claudio. Non riuscì però a realizzare il piano e, alla sua morte, Napoli e i dintorni patirono il grave problema della malaria a seguito dell’indiscriminata diffusione dell’industria di canapa e lino con l’utilizzazione dell’alveo del Clanio. Fu con l’ingegnere Domenico Fontana, negli anni dei vicerè Zuniga e Benavente, che si mise mano al tracciamento dei Regi Lagni. Lentamente fu restituito alla fertile pianura della Campania Felix l’antico equilibrio idraulico, rendendola idonea al razionale uso agricolo e soprattutto conferendo una migliore transitabilità delle vie di comunicazione, rompendo quindi l’isolamento in cui era precipitata Napoli.
L’opera fu completata con successo da Giulio Cesare Fontana, negli anni di governo del Conte di Lemos, e permise inoltre l’afflusso di nuove risorse idriche nella capitale, tra il 1615 ed il 1629, adeguate al vertiginoso aumento di popolazione ed alle necessità della molitura. Fu un’imponente opera di riequilibrio idraulico, superamento delle pessime condizioni igienico-sanitarie e recupero agrario e produttivo della provincia di Terra di Lavoro, che ancora oggi lascia a bocca aperta. Non mancarono certo problemi, a fronte, però, dei grandi vantaggi riscontrati nel settore Nola-Acerra-Maddaloni e nel complesso dell’area del Volturno, la capitale soffrì il disimpegno e la corruzione di amministratori inadeguati precipitando ancora in un forte problema di carenza idrica.
Mancava acqua per le fontane pubbliche, per i quartieri più popolosi e non era neppure soddisfatta l’industria della macina da grano. Fu così che si mise mano alla costruzione di un nuovo acquedotto. L’ingegnere Alessandro Ciminelli ed il nobile Cesare Carmignano, ascritto al Sedile di Montagna, pensarono alla costruzione di una nuova struttura capace di garantire un più abbondante afflusso d’acqua da Sant’Agata dei Goti.
L’azione del conte di Carmignano può apparire decisamente singolare se si pensa alla diffusa narrazione di una Napoli spagnola in cui l’iniziativa individuale latitava. Invece fu proprio un privato cittadino, a sue spese, ad affrontare e risolvere il problema, superando lentezze e ostacoli burocratici. Il Carmignano garantì di fornire a sue “spese, e risico, et invenzione”, tanta “quantità dell’acqua, che viene da Airola, ed altre parti di Sant’Agata quanto sarà sufficiente, e necessaria per la macina di detta trenta molte nelle tre case de’ molina, che sono nelli fossi della Città di Napoli”, inoltre precisò di poter realizzare tutto nel giro di un anno e mezzo. Si premurò anche dei rimborsi “alli padroni delle masserie, e luoghi per dove avrà da passare la detta acqua” e di effettuare le successive manutenzioni. Con grande spirito imprenditoriale ottenne che di “tutto lo beneficio, et utile, che si caverà dalle dette moline… e dalla macina di esse… la metà abbia ad essere della detta Città, e l’altra metà di me predetto offerente e partecipante meco nostri eredi, e successori in perpetuum”. Finalmente Napoli ebbe la forza idrica indispensabile per le sue macine e per le necessità igieniche dei suoi abitanti.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Bibliografia: G. Fiengo, L’acquedotto di Carmignano e lo sviluppo di Napoli in età barocca