La Tunisia vista dal fascismo

La Tunisia fu una colonia mancata? Il fascismo alimentò sempre questa idea. Testo tratto da E. M. Gray, Noi e Tunisi.

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Nel 1881: francesi 707; italiani 25.000. Ora ecco che nel 1937 il rapporto di cifre può apparire mutato. La più prudente valutazione tra le nostre e le loro statistiche ci consente di stabilire che gli italiani sono saliti a 127.000 e i francesi possono contarsi in 71.000.

Rapporto mutato, dicevamo. Se i nostri appaiono sestuplicati, i francesi sarebbero decuplicati. ma quest calcolo, che aritmeticamente è impeccabile, sondato nel profondo non torna. Infatti, se dai 70.000 francesi diffalcaste i 30.000 delle forze armate e i 10.000 funzionari, voi ridurreste a 30.000 unità la vera colonia francese; ma non sareste ancora nel giusto, perché in quei 30.000 francesi dovreste ancora rintracciare e isolare non solo i 10.000 maltesi incorporati con una sola rapina in base al decreto illegalissimo sulla nazionalità, ma anche un nucleo di italiani, che le intimidazioni morali e le violenze economiche hanno costretto a subire, più che a chiedere, la cittadinanza francese. Cosicché, vive di realtà ed eloquenti per il nostro diritto, restano le parole che 25 anni or sono da opposte sponde testimoniavano dell’assurdo francese in Tunisia. Sbarcando a Tunisi, Gualtiero Castellini scriveva: Tunisi è una città italiana occupata da truppe francesi; e il grande economista Leroy Beaulieu sembrava fare eco: La Tunisia è una colonia italiana amministrata da funzionari francesi. Funzionari e soldati, di là: gente che non si radica e che resta estranea alla vita del Paese. Di qua: contadini, commercianti, operai, amministratori: la armata italiana del lavoro che se un giorno, tutta insieme, si levasse e partisse, lascerebbe dietro a sé il silenzio e la paralisi, tragici signori di un mondo economico-sociale che soltanto gli italiani hanno costruito e potenziato con una fatica genialmente ispirata e religiosamente vissuta.

Come ha operato, infatti, questo ininterrotto afflusso italiano nei riguardi della terra che lo accoglieva? Secondo il sistema tradizionale attuato dagli emigranti italiani in qualunque continente e in qualunque secolo fino all’alba del Regime fascista. Approdare; inermi, poveri, analfabeti: nessuna preoccupazione politica, nessun preconcetto di simpatia o di ostilità per il Paese e la gente che incontreranno. Sbarcati, guardarsi attorno, non per stupire ma per orientarsi; selezionare il panorama naturale e sociale secondo gli immediati elementari bisogni. Non lasciarsi entusiasmare da immediati sogni di grandezza né scoraggiare da ostacoli impreveduti nè corrodere da abitudini forestiere.

Un programma solo: lavorare lavorare lavorare. Per gli altri: costruire strade, lasciare ponti, innalzare dighe; per sè (e spesso nelle pause di quello stesso lavoro): suscitare dalla steppa il campo di grano, negli interstizi del terreno roccioso radicare il vigneto. Lavorare, lavorare e poi quasi subito risparmiare; non contare le ore del lavoro, ma numerare avaramente ogni soldo che lo sfamarsi e il coprirsi non gli richiedono. Istinto italiano del risparmio: per ritornare più presto se l’Italia è lontana; per chiamare a sé la famiglia se la terra è vicina. E con la famiglia e per essa crearsi (mattone su mattone, zolla su zolla) la casa, l’orto, il podere; tesoreggiare senza vantarsi; valutare con cautela e pazienza il campo da allargare, il vigneto da annettere; scegliere il luogo e dare l’offerta per la Chiesa e la Scuola. E nel piccolo mondo che è ormai tutto suo – ripetendo, di poco variate, le costumanze degli avi – crearsi una patria, piccola ma precisa, a simiglianza di quella lontana verso la quale il cuore è poi sempre in ascolto per rispondere: “Presente!” se il suo appello gli giunga.

 

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