La repressione pontificia dopo il 1831

Sfumati i moti del 1831, la Penisola restava quella dei trattati di Vienna del 1815. Otto stati, il regno sardo, ora con la Liguria, il Lombardo-Veneto, il Ducato di Modena e Reggio, quello di Parma e Piacenza, il Granducato di Toscana, il Principato di Lucca, gli Stati della Chiesa ed il Regno delle Due Sicilie. I moti, a differenza di quelli del 1821, non si erano diffusi oltre le regioni del centro. Gli stati del Papa e i due piccoli ducati centrali avevano contenuto i progetti sovversivi entro i propri confini, forse aiutati da motivi economici.

Nel 1821, infatti, l’Italia era travagliata da una grave crisi economica che esasperava il popolo, ma nel 1831 la situazione si era assestata e le masse s’erano mostrate renitenti all’appello rivoluzionaria. Lo stesso Leopolo II, granduca di Toscana, animato da spirito di liberalismo moderato, aveva portato avanti diverse iniziative riformise nel campo economico e amministrativo. Questa tesi, a dirla tutta, non convince affatto. A ben guardare, entrambi i moti, quelli del ’21 e quelli del ’31, non ebbero le masse come protagoniste, ma soltanto elementi della borghesia cittadina e militari. Se la prima ribellione dilagò è solo perchè i suoi promotori, spesso ex-ufficiali ed ex-funzionari napoleonici, si mostrarono più risoluti. Quegli uomini, forse abituati alle lusinghe assaporate nelle loro carriere al seguito dell’Imperatore, non si erano rassegnati al declassamento vissuto nella Restaurazone e così, a Napoli come a Torino, avviarono il grande movimento costituzionalista che scosse la Penisola.

Restava sospeso il memorandum del 21 maggio, quello con cui i rappresentanti delle potenze europee avevano provato a convincere il papa di attuare notevoli mutamenti nell’amministrazione dello stato. L’iniziativa della repressione, tanto incupita dall’Austria, la galera, gli esili e le forche, falcidiarono i moti del ’31 della loro direzione. I due protagonisti della resistenza all’invasione asburgica dell’Emilia e della Romagna, Zucchi e Secognani, erano due generali della vecchia Repubblica Cisalpina, gli altri erano ormai vecchi, privi di energie e illusioni. Tuttavia il 1831 mostrò comunque la fragilità dei regimi restaurati, oltre che la debolezza delle forze insurrezionali.

L’intervento austriaco, restaurato l’ordine nelle Legazioni, fu seguito da una conferenza convocata a Roma su insistenza di Parigi. Metternich richiamò le truppe e i francesi fecero pressione sul papa affinchè accettasse qualche riforma. Ciò incoraggiò molti patrioti emiliani e romagnoli a rialzare la testa e a presentare ossequiose proposte di concessioni. Gregorio XVI ed il segretario di stato, il cardinale Bernetti, le ritennero eccessive.

Il pontefice sarebbe passato alla storia come un inflessibile reazionario, restio ad ogni mutamento politico e sociale e ad ogni novità del progresso. Numerosi aneddoti lo testimoniano. Non volle che ne suoi stati si costruissero ferrovie rispondendo al ministro Gladstone, nel 1834, che esse “sono nocive alla salute. Voi inglesi siete tutti soggetti alla tisi per il passaggio così rapido nell’aria che fate andando in ferrovia”. Precisò poi la vera ragione di tanta ostilità: la ferrovia avrebbe congiunto i suoi fedeli di Civitavecchia con gli incorregibili ribelli di Ancona! Ma Gregorio XVI per la paura della rivoluzione non volle neppure che si piantassero pali del telegrafo nei suoi domini e a coloro che insistevano per ottenere i permessi per introdurre queste novità rispose un dì: “Viscere mie, non posso concedervelo. So io che cosa viene poi, dietro questa roba!”.

Così, mentre i pontifici brutalizzavano Rimini, che pure non aveva opposto loro resistenza alcuna, il governo di Roma proclamava la chiusura delle Università laiche, l’aumento delle imposte fondiarie, la restaurazione del Sant’Uffizio e l’istituzione di tribunali speciali per la repressione. L’ambasciatore francese, Sainte-Aulaire, non poté fare altro che constatare il fallimento della mediazione francese. I due fronti tornarono allora a sfidarsi.

Cinquemila uomini comandanti dal cardinale Albani marciarono contro i duemila ribelli concentrati a Cesena e li sbaragliarono nella battaglia del Monte, dove i morti non furono più di dieci. Tra loro si distinse un ex-volontario di Sercognani, Gustavo Modena, futura stella teatro. Non finì qui. A Forlì i pontifici spararono sulla popolazione inerme ammucchiando una ventina di cadaveri che inorridirono lo stesso Albani. Gli austriaci conclusero il lavoro occupando Bologna. In risposta la Francia occupò Ancona: nel febbraio del 1832, una squadra navale d’oltralpe sbarcò nel porto un paio di reggimenti, i papalini si arresero. Il comandante della spedizione aizzò nuovamente i liberali a stringersi attorno al loro tricolore e a riprendere la lotta. Stendhal, che in quel momento era console a Civitavecchia, scrisse che a quell’appello risposero tutte le Marche e centinaia di giovani si riversarono ad Ancona per arruolarsi nelle truppe francesi. Il cardinale Bernetti richiamò allora il Sainte-Aulaire e, tra tante difficoltà, ogni iniziativa sovversiva fu placata. Solo sei anni dopo però, nel 1838, un accordo tra Francia e Stati della Chiesa legalizzava l’occupazione e stabiliva che essa sarebbe durata fino a quando anche gli austriaci non si fossero ritirati.

L’accordo scatenò la reazione guidata ora dal Principe di Canosa, accorso apposta da Napoli. Furono istituiti i Centurioni, una milizia volontaria dedita alla caccia ai liberali. Essi sparsero il terrore a Lugo, Imola, Faenza e, in pochi mesi, si contarono più di ottocento morti. Lo stesso Metternich ne fu scandalizzato… L’austriaco riuscì ad ottenere da Gregorio XVI il licenzimaneto del Bernetti. Un po’ di pace tornò allora in Romagna.

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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