La presidenza Einaudi

Un mese dopo le elezioni del 18 aprile 1848 nasceva la presidenza Einaudi. Il Blocco Popolare, sconfitto, sedeva alle camere come opposizione, la DC invece godeva della maggioranza assoluta e puntava tutto sul prestigio dell’economista piemontese che, però, fu eletto solamente al quarto scrutinio, con 518 voti su 872. Le parole chiavi del suo discorso politico-economicostavano tutte nella parità di bilancio e in una politica anti-inflazionistica, due problemi da tutti riconosciuti. Luigi Einaudi successe così al napoletano Enrico de Nicola sancendo, difatti, la fine dellabreve stagione di collaborazione tra le forze politiche del dopoguerra.

Alle elezioni i democristiani avevano conquistato la maggioranza dei seggi, 305 su 574, e dominavano la scena guidati da Alcide De Gasperi. PCI e PSI contavano 131 e 52 seggi, i saragattiani 33. La polemica politica si era accesa toccando punte di asprezza che lasciavano temere per la tenuta democratica del Paese.

In questo clima Einaudi, eletto col sostegno di liberali e socialdemocratici, avvertì come urgenza quella di avviare saldamente la costruzione “di quell’edificio di regole e di tradizioni senza il quale nessuna costituzione è destinata a durare”, come ebbe a dire nel suo primo messaggio. Non è un caso che questa sensibilità fosse espressa da un monarchico. Chi meglio avrebbe potuto cogliere quelle avvisaglie di debolezza instabilità insiste nel giovanissimo istituto repubblicano italiano?

Così, Einaudi compì il suo incarico misurandosi con la più convinta e rigorosa esecuzione delle responsabilità del suo ruolo. Esemplare fu la sua condotta quando rinviò al Parlamento provvedimenti legislativi che ritenne tali da non ottemperare agli articoli 81 e 106 della Costituzione (ovvero mancata indicazione dei mezzi di copertura finanziaria e obbligo del concorso pubblico per la nomina dei magistrati) o che ledevano essenziali principi amministrativi come fu il caso della proposta di legge per la proroga dei “diritti casuali” del personale dei ministeri finanziari.

Con la meticolosità di un notaio, sostenne che, contando circa diecimila decreti l’anno e trenta settimane utili per firmarli, avrebbe potuto controllare tutto minuziosamente solo abbandonando la vecchia consuetudine regia che prevedevala firma dei decreti ogni giovedì, e quindi firmarne circa trecento a settimana. Esistevano gli uffici legislativi dei Ministeri, ma non gli bastava. Questo modo di fare affermò il pieno controllo presidenziale sui decreti governativi e segnò la successiva prassi della vita repubblicana.

Tuttavia il suo mandato non fu esente da polemiche. Sotto la sua presidenza, infatti, e con la sua firma, passò la cosiddetta “legge truffa” che assegnava, a chi avesse superato il 50% dei voti, il 65% dei seggi. Non meno controversa fu la sua scelta di non sciogliere le camere e di affidare, falliti i tentativi di De Gasperi e Attilio Piccioni, ad un uomo di sua nomina, Giuseppe Pella, (senza nemmeno ascoltare la DC) la costituzione di un governo tecnico che si guadagnò la maggioranza solo quando si presentò in Parlamento, ottenendo consensi tra monarchici e democristiani e l’astensione dei socialisti. Il 17 agosto 1953, Pella formò il primo governo repubblicano non guidato da De Gasperi.

Commentatori notarono in tali sue scelte l’emergere dell’antica sfiducia dei ceti liberali risorgimentali verso le masse popolari. Queste, entrate in scena con la Resistenza, il suffraggio universale e i partiti di massa, sembravano ai conservatori inaffidabili e incapaci di creare un equilibrio politico.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: A. Comes, Il signor Presidente, L’Astrolabio, 10gennaio 1971; S. La Rosa, I governi italiani dal 25 aprile 1943; I. Montanelli e M. Cervi, L’Italia del miracolo – 14 luglio 1948 – 19 agosto 1954

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