La peste in Liguria ai tempi di Giustiniano

Ai tempi di Giustiniano, negli anni in cui i goti s’arrendevano a Narsete, scoppiò una gravissima epidemia di peste pruriginosa di tipo bubbonico che colpì soprattutto la Liguria. Le case e i campi venivano abbandonati, i cadaveri lasciati insepolti. Questo è il terribile scenario che Paolo Diacono descrive in Storia dei Longobardi.

I passi in cui si parla della peste sono davvero toccanti. Strane macchie sulla pelle, ghiandole e febbre affliggevano gli ammalati destinati a morire o a sopravvivere entro tre giorni. Il terrore diffuse una incontrollata isteria collettiva con le persone abbandonavano le proprie abitazioni, lasciando insepolti i cadaveri. Persino i genitori, spaventati, abbandonavano i loro figli colpiti dalle febbri: “Ai suoi tempi, principalmente nella provincia della Liguria, scoppiò una gravissima pestilenza. All’improvviso infatti per le case e per le porte, sui vasi e sui vestiti apparivano certe macchie; e se qualcuno cercava di detergerle, spiccavano ancor di più. Trascorso un anno, nell’inguine degli uomini o in altre parti del corpo più delicate, cominciarono a spuntare delle ghiandole della dimensione d’una noce o d’un dattero; e a esse veniva dietro un ardore di febbri intollerabile, tale che in tre giorni l’uomo moriva. Se qualcuno invece superava il terzo giorno, aveva speranza di sopravvivere. Ovunque lutti, ovunque lacrime. Infatti, poichè tra il volgo correva voce che chi fuggiva scampava alla morte, le case erano deserte, abbandonate dai loro abitanti, e solo i cani le custodivano. Rimanevano soli nei pascoli i greggi, senza pastore che vigilasse. Prima avresti visto villaggi e accampamenti pieni di schiere di uomini, il giorno dopo ogni cosa era immersa in un silenzio profondo perchè tutti erano fuggiti. Fuggivano i figli, lasciando insepolti i cadaveri dei genitori; i genitori, dimentichi di ogni senso di pietà, abbandonavano i figli che ardevano di febbre. Se l’antica pietà obbligava ancora qualcuno a cercare di dare sepoltura al prossimo, restava lui stesso insepolto; e mentre compiva l’opera pietosa, era tolto via dal male; mentre offriva alla morte l’onore dovuto, la sua morte restava senza onore alcuno”.

Dopo la narrazione dei trionfi di Narsete, prima di descrivere la fine di questo generale, Paolo Diacono si focalizzò dunque sulla propagazione del morbo, analizzandone la manifestazione ma anche le conseguenze sociali, in una pagina di grande tensione emotiva: “Potevi vedere il mondo riportato al silenzio delle sue origini: nessuna voce dei campi, nessun fischio di pastore, nessuna insidia di fiere tra il bestiame, nessun danno per i domestici uccelli. Le messi, che già avevano passato il tempo d’esser mietute, aspettavano intatte il mietitore; la vigna sulla quale, cadute le foglie, le uve rosseggiavano, rimaneva illesa mentre già si avvicinava l’inverno. Sia nelle ore del giorno che in quelle della notte risuonava la tromba di guerra, da molti si udiva come il fragore d’un esercito. Nessuna traccia di viaggiatore, non si vedevano briganti, e tuttavia i cadaveri dei morti si estendevano più in là di dove poteva giungere lo sgardo. I luoghi dei pastori si erano trasformati in sepoltura d’uomini, le abitazioni degli uomini erano divenute tane per le fiere”.

I gravi lutti familiari, la decimazione della popolazione, la rovina dei campi, l’abbandono delle case, tutta la disperazione di quella drammatica vicenda colpisce ancora a distanza di tanti secoli.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

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