La peste del 1522 a Roma

Il 20 giugno 1522 il conservatore Bernardino Sanguigni annunciava in consiglio che la peste era entrata a Roma e che subito occerrevano fondi. Furono qui prelevati 300 scudi per radunare medici e assistenti, ma la città non aveva un lazzareto e bisognò apprestarne uno. Di solito, sin dal 293 a. C., l’Isola Tiberina veniva destinata a ricovero degli appestati che rivolgevano le loro preghiere di guarigione al dio Esculapio nel tempio lì eretto, ma la troppa vicinanza dell’isolotto alle rive sconsigliava d’indugiare ad usarlo ancora.

Passò un mese e la peste dilagò facendo stragi di romani. I cittadini fuggivano dove potevano, molte famiglie della nobiltà ripararono a Tivoli fino a quando i tivolesi iniziarono a respingerli con armi e pietre. L’atteggiamento di Tivoli portò i magistrati dell’Urbe a meditare vendetta. Poco importava che semplicemente i tivolesi provavano a salvarsi dal contagio, Roma meditò di imporre loro nuove tasse.

Per tutta l’estate la peste imperversò in città. I cardinali eran già fuggiti via da un pezzo, così pure diplomatici e prelati e chi non aveva potuto andar via, si era rintanato in monasteri e ville. Fu allora che assurse a grande fama il greco Dimitri ed i suoi rimedi mezzo pagani. Tenne frotte di pazienti, buona parte della poolazione s’affidò a lui per liberarsi dal morbo, poi il cardinale Icobacci fece bruciare i suoi libri e lo spedì in prigione.

Messi da parte anche i rimedi suggeriti dalle superstizioni, i romani s’affidarono a processioni, immagini sacre e crocifissi. Queste impressionanti manifestazioni di penitenti erano soprattutto composte di uomini seminudi che si battevano a sangue, seguiti poi dalle donne che piangevano avanzando con ceri accesi. Sembrò funzionare ed andò anche meglio quando, sul finire dell’estate, riprese a falcidiare grandi numeri.

Una nuova commissione incaricata di trovare denaro per assolevere ai provvedimenti sanitari di cui si urgeva, spedì i caporioni di casa in casa nei rispettivi rioni per raccogliere elemosine. Gli stessi caporioni furono incaricati di tener chiuse le porte cittadine in modo che non potessero entrare in città viaggiatori sospetti d’essere infetti. In giugno la peste si acuì. Non mancarono le quotidiani orazioni del papa che non volle allontanarsi da Roma e che accettò solo di chiudersi nel Belvedere. Anche nella sua corte erano morti due appestati.

Finalmente un miracoloso crocifisso sfilò per le vie della città. Il crocifisso era ritenuto miracoloso sin dal 23 maggio del 1519 quando era uscito indenne dall’incendio che aveva distrutto completamente la Chiesa di San Marcello in cui veniva conservato. La reliquia fu così portata in processione nel corso della peste per ben sedici giorni. Man mano che esso procedeva per i quartieri romani la peste dava segno di indebolirsi, il mormo regrediva, le vittime diminuivano. Al termine della processione, quanto il crocifisso rientrò nella ricostruita Chiesa di San Marcello, la peste era del tutto scomparsa.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra
Bibliografia: P. Pecchiai, Roma nel Cinquecento

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