La mancanza di porti nelle Due Sicilie

La mancanza di porti nelle Due Sicilie rappresentò un gravoso freno allo sviluppo economico.

L’opinione secondo cui il governo borbonico costruì poche strade, ed ancor meno ferrovie, perchè puntò sempre sul trasporto marittimo, non trova riscontro nella realtà dei fatti. Nelle Due Sicilie mancavano porti e quelli che c’erano erano obsoleti ed insicuri. Il commercio interno dunque non era affidato al mare e addirittura intere regioni costiere non avevano porti.

E’ il caso della Calabria meridionale, denunciato da Giuseppe Antonio Pasquale subito dopo l’unità (Relazione sullo stato Fisico-economicoagrario della prima Calabria ulteriore, Napoli 1863): “Per vie di sbocchi a questa provincia ne presenta assai il mare. Ma una provincia come questa, cinta (pel suo lato occidentale, meridionale, ed orientale, e per una lunghezza di circa 220 chilometri) dal mare, non ha porto, nè naturale, nè artificiale; ha purnondimento moltissima costa approdatale. Nessuna opera d’arte che possa agevolarne l’imbarco, all’infuori di una banchina a Reggio, la quale è rotta. Eccettuati due fanali, uno a Reggio e l’altro a Scilla sotto il forte, tutta la costa, durante la notte, rimane allo scuro, a malgrado delle rimostranze di questa necessità almeno per un fanale al capo Sparavento ed un altro al Capo Stilo (o meglio detta Punta di Stilo) ed un terzo sul forte di Scilla. La Costa Ionia è tutta approdabile, ma esposta ai venti, corre diritta senza un riparo ai naviganti. E soprattutto pericoloso è il voltar dalla costa orientale per la meridionale a cagion dei contrasti di venti contrari a Capo Sparavaneto. Ora lì presso ci ha il Capo Bruzzano, dove scuovresi ad un tratto tutta la costa orientale: si offre per unica sporgenza, o promontorio, e che dal suo lato settentrionale potrebbe accomodarsi a port. Porti si son progettati ancora presso Reggio, cioè a Pintimele, e nella Citta al Forte nuovo. Ma di questi progetti, perchè troppo grandiosi, noi non facciamo gran caso. Piuttosto ci contenteremmo fare delle banchine a Gioia, Siderno e Reggio, in cui quella che vi ha è meschinissima. Vorremo delle botti di ormeggio oltre quelle sole tre che sono in Reggio, almeno nei caricatoi di Gioia e Siderno. Il commercio marittimo di questa provincia non è che di cabotaggio: l’esterno si fa pel vicin porto di Messina”.

L’estensore della relazione, a ragione, collegava la mancanza di porti alla mancanza di viaggi mercantili e di esportazioni. Tutto ciò condannava Reggio Calabria alla fame mentre i prodotti agricoli locali restavano invenduti o addirittura finivano gettati in pasto ai porci: “…La mancanza di viaggi periodici tra la costa orientale, Roccella, Siderno, Bovalino, Bianco, con l’occidentale, Reggio, Villa S. Giovanni, Bagnara, Gioia, fa si che le derrate soverchie in taluni punti della provincia non si possano portare in altri. Onde qualche volta, come nel Novembre e Dicembre del passato anno 1860, la città di Reggio rimaneva per qualche tempo priva di pane, mentre era abbastanza accumulato del grano in Siderno. Il commercio si fa tra le nostre marine con quel porto di Messina con i legni qui notati in questo stato, e pochissimo direttamente tra punto e punto della stessa costa; per la difficoltà d’approdo, e la incostanza dei venti; specialmente pei pericoli che si passano nel traversare o viaggiare per lungo il canale di Messina. Si vorrebbe a vantaggio dell’agricoltura della provincia, dei mercati marittimi, donde le derrate e specialmente le frutta si spedissero per Napoli e tutte le città italiane marittime. Come si fa con gli aranci pel commercio esterno: così si potrebbe praticare con le frutta commerciabili, tra i quali il Fico d’India, il quale vendesi in Napoli ogni due o tre un grano; mentre in detta provincia si vendono dai rivenditori di piazza a dodici o quattordici ogni grano. Ed a certi paesi, come Bova, con i Fichi d’India s’ingrassano i maiali. Oltre a ciò lo stesso cabotaggio di questa costa con Napoli si fa spesso con vapori piccoli e pericolosi e nella provincia non ci ha altro punto in cui si goda di questo beneficio. L’agricoltura di questo svantaggio ne risente tutto lo inconveniente ed il genio agricolo degli abitanti n’è per conseguenza tarpato”.

La situazione non sembrava diversa in Puglia. Sotto Ferdinando II si lavorò al recupero del porto di Brindisi, progettandone addirittura il collegamento ferroviario con Napoli, ma non se ne fece nulla. Anzi, puntando sulla costruzione di imbarcazioni di grossa stazza, destinate ad una navigazione di lungo corso, i porti pugliesi risultavano ancora più inadeguati, completamente privi delle strutture di supporto alle operazioni commerciali, e finirono in abbandono ed in gran parte interrati. L’ingegnere Ercole Lauria rielaborò i progetti per i porti di Gallipoli, di Bari, di Mola e rifece ex novo quelli per Monopoli, Trani e Barletta, ma questi lavori furono attuati solo in minima parte ed i principali lavori di modernizzazione restarono sulla carta. Per esempio nel caso del porto di Barletta, per il quale Lauria aveva proposto una ricostruzione dell’isolotto, l’ampliamento del molo isolato ed un ponte di collegamento sull’istmo del molo vecchio, si realizzò solo la manutenzione della banchina del braccio di ponente del molo isolato e la demolizione dell’istmo senza ricostruire il ponte (R. Ruggiero, Città d’Europa e cultura urbanistica nel Mezzogiorno borbonico).

Nel “Ragguaglio di alcuni principali porti, fari e lazzaretti de’ reali dominii di qua dal faro” di Giuseppe Carelli (Napoli, 1857) si coglie il sostanziale disinteresse del governo borbonico nella cura dei porti. I minuziosi dati sugli investimenti nell’ammodernamento dei porti sono sempre accompagnati dalla testimonianza del tardivo intervento, del lentissimo iter burocratico e degli incredibili errori nella stima dei costi: i lavori intrapresi nel 1843 per il porto di Molfetta sono ancora in corso nel 1857, stesso dicasi per il porto di Mola di Bari iniziato nel 1847, del porto di Brindisi invece si dice che fino ad agosto 1848 “si erano già spesi ducati 415056.46 e non si era fatto nemmeno il terzo di quel che la Commissione autrice del mentovato progetto aveva proposto colla spesa al massimo di ducati 356000 in tutto”. Tali criticità erano soprattutto legate al fatto che i fondi non erano quelli statali, ma quelli, assai modesti, delle istituzioni locali: “I nostri porti mercantili si costruiscono e si mantengono per la maggior parte a spese delle provincie, ed anche più spesso de’ rispettivi Comuni, i quali vi hanno un interesse immediato e diretto…”. Così, del porto di Manfredonia, completamente in abbandono nel 1857, si legge: “Fin dal 1834 il Consiglio provinciale ne chiese lo spurgamento ed in questa occasione se ne pose la spesa per annui ducati 500 a carico del Comune, e pel resto della Provincia. Ma gli Amministratori comunali invocarono nel 1840 l’opera del Real cavafondo a vapore il Vulcano, e poi furono sgomentati dalla spesa, per la quale nemmeno la Provincia aveva più mezzi”.

Il mancato sviluppo di infrastrutture portuali ed il conseguente svantaggio competitivo dei territori meridionali finì al centro della Relazione del Ministero dei Lavori Pubblici, Stefano Jacini (L’amministrazione dei lavori pubblici in Italia dal 1860 al 1867).

In essa leggiamo: “Si sarebbe potuto credere che il regno delle Due Sicilie, possedendo così grande estensione di spiagge marittime, ed avendo in quelle marine le sue più floride e popolose città, dovesse possedere un gran numero di porti ben muniti, comodi e disposti per modo da offrire sicuri e spaziosi approdi alle navi che venissero a caricarvi i prodotti del paese, o a portarvi dall’estero gli oggetti necessari ai bisogni delle popolazioni. Non difettavano invero, nelle meridionali provincie, studi e progetti grandiosi e bene immaginati per creare nuovi porti, per ripristinare quelli abbandonati, per migliorare gli esistenti; ma gli effetti male corrispondevano alla grandiosità dei propositi, ed il Governo borbonico cadeva, lasciando in generale quasi del tutto abbandonate e scarsamente provviste di fari le coste napoletane, i porti non solo insufficienti e poco sicuri, ma per la maggior parte mancanti dei comodi i più elementari. Cagione principale di questo abbandono, nel quale si trovavano i porti delle provincie napolitane, erano le norme amministrative dalle quali venivano regolate quelle opere. Il Governo provvedeva quasi esclusivamente ai porti militari, concedendo soltanto talvolta qualche sussidio per le altre opere marittime, che dovevano promuoversi dal comune principalmente interessato, al quale conveniva passare per una lunga trafila di lungaggini e di vessazioni burocratiche, per ottenere semplicemente il permesso di far redigere un progetto delle opere di cui proponeva l’esecuzione. Ed una volta che, dopo molti studi, dopo molte variazioni, il comune otteneva dal Governo l’approvazione del progetto, rimanevano da superare le difficoltà ben più gravi per trovare i mezzi di sostenere le spese dell’opera, procurandosi il concorso degli altri comuni interessati o della provincia, ottenendo la facoltà d’imporre straordinarie tasse marittime sulle importazioni ed anche talvolta sulle esportazioni, le quali tornavano poi d’aggravio al commercio che si voleva favorire, e spesse volte dovendo stipulare contratti onerosi, per potere ripartire le spese in molti anni, ovvero ridurre ad umili proporzioni le opere che si erano dapprima progettate”.

L’interessante ragguaglio si sostanzia in una severa analisi del sistema portuale meridionale come lasciato dai Borbone: “Nel tratto di costa da Gaeta a Napoli grandi progetti eransi studiati per il miglioramento del porto di Gaeta, del porto mercantile di Napoli e di quello di Pozzuoli, per creare altri ricoveri nelle isole di Ponza e di Ventotene; ma i lavori effettivamente eseguiti si ridussero ad alcuni restauri a Gaeta, all’ampliamento del porto d’Ischia, ad intraprendere il ripristino di quello di Nisida, ove venne pure cominciata la costruzione di un lazzaretto, e stabilito nel 1842 il più antico faro lenticolare d’Italia, e a pochi ed incompleti lavori nel porto di Pozzuoli. Quanto a Napoli, tutte le cure del Governo erano rivolte al porto militare… Nel rimanente delle spiagge del Tirreno fino a Reggio di Calabria, il solo porto esistente era quello di Salerno, ed anche questo poco sicuro e ristretto, malgrado i lavori che vi fece intraprendere la provincia colle limitate sue risorse, e soprattutto poi affatto inefficace per la sua posizione a servire di ricovero alle navi, in tutto quel vasto e pericoloso litorale. Si rodinarono e si fecero progetti per creare qualche nuovo ricovero lungo quelle spiagge, rivolgendo gli studi successivamente al Pizzo, ad Agropoli, a Palinuro, a San Nicola d’Arcello, a Palmi, a Paola, a Tropea, a Santa Venere, a Reggio, a Scilla; ma di tutti questi studi nulla fu concretato, e nonchè iniziare qualche opera, non erasi nemmeno deliberato quale fosse fra tutte queste la località più conveniente per la creazione di un nuovo porto di ricovero… Nè migliori erano le condizioni dei porti nelle spiagge dell’Ionio e dell’Adriatico: nei porti di Crotone, di Taranto, di Gallipoli, per scarsezza di mezzi o per contrarietà del Governo, pochi lavori erano stati eseguiti… Le popolazioni delle Puglie, più numero e più ricche, avevano potuto quasi che ultimare il porto di Molfetta, intraprendere la costruzione di quello di Bari; ma interrito giaceva il porto di Brindisi, nonostante i lavori che lentamente vi si andavano eseguendo; imperfetti per mancana di fondali o per scarseza di opere di difesa quelli di Trani, Monopoli e Manfredonia, mentre poi in tutto il lunghissimo tratto di costa da Manfredonia al Tronto non esisteva alcun porto che meritasse veramente questo nome, non potendo i piccoli ricoveri di Pescara e di Ortona servire che imperfettamente di rifugio alle navi di più piccola portata”.

Egual discorso valeva per la Sicilia: “…I porti siciliani, alcuni dei quali come quelli di Messina, Palermo, Trapani sono per movimento commerciale fra i più importanti d’Italia, erano pure ben lungi dall’essere tenuti in buone condizioni dal Governo borbonico. A Girgenti, a Trapani, a Palermo le escavazioni annue non valevano a remuovere tutte le materie, che le correnti ed i venti vi andavano progressivamente accumulando: ed in tutti i porti poi si faceva più o meno sentire il difetto di banchine di approdo, di sbarcatoi, di scali d’allaggio, di gavitelli, di colonne d’ormeggio e di tutti gli altri accessorii necessari ad un comodo e sicuro soggiorno delle navi di commercio. Se poi il porto di Messina, al quale il cessato Governo aveva rivolto le principali sue cure, non lasciava tanto a desiderare per la sicurezza e comodità dell’approdo, quelli invece di Palermo e di Catania erano di pericoloso accesso, di mal sicura stazione, per difetto o per male intesa disposizione delle opere di difesa; Girgenti anziché un vero porto non aveva che un cattivo molo, per non tener parola degli altri porti dell’isola, anch’essi più o meno bisognosi di opere di miglioramento di qualche importanza”.

L’assenza di una valida rete di porti in un paese interamente disteso nel Mediterraneo, e che da questa sua posizione avrebbe dovuto ricavarne vantaggi, destò scalpore. Lavori di ammodernamento e nuove costruzioni furono intraprese negli anni successivi all’Unità.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

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Un pensiero su “La mancanza di porti nelle Due Sicilie

  • 24 Agosto 2024 in 11:47
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    Buongiorno!
    Come si possa dire che l’economia del Regno fosse fiorente all’epoca dei Borboni, mi riesce difficile crederlo, la situazione dei porti é descritta nell’articolo, la rete ferroviaria copriva una cinquantina di chilometri, come caspita si trasportavano le merci? Le imprese erano costrette a istallarsi in prossimità dei porti per poter spedire le merci, ma come si trasportavano all’interno del Regno? A dorso di mulo? Sappiamo dai contemporanei che le strade erano in uno stato pietoso, va da sé che l’entroterra era in uno stato retrogrado, é logico! Ricordiamo che la ferrovia aveva giocato un ruolo importante per trasportare le truppe francesi nel nord durante la Seconda Guerra di Indipendenza.

    Un saluto

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