La disfatta di Federico II a Parma
La Battaglia di Parma fu uno scontro verificatosi tra i guelfi e l’imperatore Federico II di Svevia, che pose fine all’assedio dell città, durato dal luglio 1247 al febbraio 1248.
L’assedio in questione fu una delle più note pagine della lotta tra guelfi e ghibellini, e sancì il tracollo delle attese imperiali, di lì in poi destinate all’insuccesso.
Parma era da tempo contesa dalle due fazioni opposte, guelfi e ghibellini, che vi vedevano qualcosa in più che una città. Parma era il cuore dell’Emilia, un sito strategico sulla Via Francigena. Nel 1245 Innocenzo IV tentò di guadagnarla al suo partito nominando come nuovo vescovo il fedele Alberto Sanvitale. Di lì a poco, Ugo Sanvitale, fratello del vescovo, affiancato da Bernardo di Rolando Rossi, cognato del papa, Gilberto da Gente, capo degli oppositori imperiali a Parma e suo futuro podestà, e Gregorio da Montelongo, legato pontificio e futuro patriarca di Aquilea, presero il totale controllo della città. Federico II allora vi si portò precipitosamente e scacciò i rivoltosi, che ripararono a Piacenza, mettendo a capo di Parma il suo fedele Tebaldo Franceschi, podestà di Vicenza, di Padova e Vicario generale della Marca Trevigiana, che, nel marzo del 1246, gli si sarebbe rivoltato contro ordendo una congiura per assassinare sia lui che il figlio.
In quell’anno il Concilio di Lione confermò la scomunica imperiale e non tardò che Federico II si disponesse a marciare sulla città francese. Tuttavia ancora una volta Parma si ribellò riaccogliendo gli esuli.
L’imperatore si trovava nella Val di Susa quando fu raggiunto dalla notizia, così, nuovamente sollevatasi, la città si rivide assediata dalle truppe imperiali nel 1247, rafforzatesi anche delle milizie di Enzo, figlio di Federico II, che interruppe l’assedio di Quinzano, presso Brescia, e da quelle di Ezzelino da Romano.
Di nuovo a capo di Parma, Gregorio da Montelongo, Bernardo di Rolando Rossi e Gilberto da Gente provarono ad organizzarne le difese ma non videro accorrere eserciti dalle città guelfe. Giunsero uomini da Milano, Ferrara, Mantova, Piacenza, ma pochi, di fatti restarono soli contro Federico II che sistemò le sue schiere in un campo trincerato in località Grola, chiamato “Victoria” come buon augurio. Vittoria avrebbe dovuto rimpiazzare Parma che, una volta caduta nelle mani di Federico II, sarebbe stata distrutta e le sue rovine cosparse di sale. Scrive Ireneo Affò in Storia della Città di Parma che: “Con tanta gente a’ suoi cenni ne scavò pretto le fosse, ne alzò i terrapieni, ne fabbricò le porte co’ suoi ponti levatoj, e dentro vi eresse casamenti colle pietre, tegole, e travi degli edifizj guaftati all’ intorno per le deserte campagne , e denominolla con mal augurio Vittoria. La Chiesa, che dentro vi fece, o procurò che inchiusa vi rimanesse, fu intitolata a San Vittore, e i denari ivi da lui fatti battere si chiamarono Vittorini. Sul Canale diversi Molini piantò, e quanto in una Città perfetta desiderar si può, con gran sollecitudine vi raccolse , sperando in breve di pigliar Parma, di flruggerla sino dai fondamenti, di seminarvi il sale, onde 1′ erba neppur vi sorgesse, e di lasciar eterna memoria colla Città novella…”.
L’imperatore contò di prendere Parma per fame e per otto lunghi mesi strinse in isolamento la città che cadde nella disperazione. Ireneo Affò riporta: “La desolazione nella Città era grandissima, perchè le insidie del nemico si facevan continue, usandosi ogn’arte per introdurvi spie, non ottante la gran vigilanza de’ nostri. Entro i carri di fieno, e le botti, che venivano in Città, erano perciò fatte perqui-r sizioni rigorosissime, e vi si trovarono talvolta nascosti uomini, che furon dati subito a morte. Per questo e i Ponti e le Porte giorno e notte si cufìodivano colla maggior gelosia. Erano assidue le preghiere de’ buoni Ecclesiastici, e le Dame della Città scarmigliate e dimesse andavano sovente al maggior Tempio supplicando Maria Vergine nostra Signora per la cornun salute, a cui per voto offersero una Città effigiata di saldo argento… Lo scoraggiamento vedevasi talvolta anche sulla faccia de più risoluti, conciossìachè la penuria cominciava a farsi sentire, e a tanto crebbe, che il pane, tratto da farina di seme di lino, ottimo parve , ed erbe e radici furono cibo squisito. Le acque, solite derivare alla Città pe canali, trattenevansi dal nemico imperversato, che in mille guise minacciava esterminio”.
Tutto sembrava dover finire male per Parma, fino a quando, Gregorio da Montelongo volle guidare una sortita contro Vittoria. Era il 18 febbraio del 1248 ed il successo arrise ai guelfi: il campo di Federico II finì distrutto, l’esercito massacrato. Si contarono oltre duemila morti e più di tremila prigionieri.
Ireneo Affò così ricostruisce il fatto: “Il vero è, che nel giorno diciotto, senza richiamar indietro il Campo appostato tra Colorno e Brescello, raccolse il Legato quella parte di presidio che rimaneva, ed esortatala ad essere coraggiosa e forte, inalberato il vessillo, dov’era dipinta l’immagine di Maria noftra Signora, trasselo in compagnia del Podestà fuor delle Porte, prendendo risoluta marcia verso l’odiata Vittoria sull’ora di Terza, in tempo che Federigo se n’era, come alcuni scrivono, almeno per tre miglia allontanato cacciando. Le sentinelle avvisarono l’imminente non preveduto pericolo, e prefli furono gl’Imperiali qual meglio poterono ad usar resistenza ma tra la fretta e la confusione abbaftanza non valendo ad opporsi, cedettero all’ impeto de noftri, che vinte ad un tratto le porte , superati i ripari, incendio e ftrage sugli attoniti impauriti Imperiali recando, in poco spazio di tempo misero a’ fiamme tutte le abitazioni, e a fil di spada i nemici, tra i quali cadde sventrato il Marchese Lancia, Taddeo da Sessa Imperiai Giudice v’ebbe le braccia tronche, e morì di spasimo, mille e cinquecento nel proprio sangue nuotarono, oltre i pesti sotto i piedi de’ furibondi cavalli, tremila furono messi in catene in luogo de’ nostri, che ivi da più mesi gemendo nelle penose carceri, si aspettavano di giorno in giorno la morte, ed i fuggiaschi vennero lungo tratto inseguiti sin a due miglia oltre Taro. Il noftro popolo veggendo dai terrapieni tanta ruina sul nemico, uscì, comprese le donne flesse e i fanciulli, a saccheggiare la fumante Vittoria, riserban do a se flesso il magnanimo Legato soltanto i padiglioni imperiali, ed al Comune la metà delle preziose spoglie, che furono abbondanti e ricchissime. Quindi venuta la Corona Imperiale di Federigo alle mani di un plebeo chiamato Corto-passo, pagata gli fu dal Pubblico per metà colla giunta di una casa donatagli presso Santa Cristina, e collocata venne nella Sagristia della Cattedrale, ove pur tutte le sacre Immagini e le Reliquie trovate nella Cappella dell’Imperadore furono riposte. I soldati solleciti del trionfo, preso il Carroccio de’ Cremonesi chiamato Berta o Bertacciola, lo trassero tripudiando in Città, collocandolo dopo i convenienti canti di grazie all’ Altissimo nel Battistero, dove Mantovani e Milanesi tanto avversi a Cremona spogliaronlo poi di ogni ornamento, rimanendo l’ignudo plaustro in terra, e l’antenna senza bandiera al muro appoggiata con alcuni versi di obbrobrio. Il fumo della incendiata Città, che già si spianava e struggeva, ed il clamore de’fuggitivi avvertirono Federigo del riportato scorno, e lo rendettero accorto non poterlo più riparare che a rischio d’incontrare di peggio…”.
Federico II, che in quel momento era a caccia nella Valle del Taro, riuscì a rifugiarsi a Borgo San Donnino e poi a Cremona. I sogni ghibellini di conquistare l’intera Italia si sgretolarono di colpo. Dopo la vittoria di Parma, fu chiaro ai comuni del Nord Italia che era possibile battere l’imperatore. Così Federico II non riuscì più ad imporsi contro la Lega Lombarda, che anzi recuperò parte dei territori persi. Il Marchesato del Monferrato continuava ad essergli ostile, così come i genovesi, e persino Ezzelino III, pur rimanendo fedele alla causa ghibellina, scacciò il governatore imperiale da Monselice. L’Emilia-Romagna passò interamente in mano guelfa e in Toscana scoppiarono moti di ribellione.
Autore articolo: Angelo D’Ambra