La cerimonia di nozze per gli antichi romani
Traiamo da Vita romana di U. E. Paoli una ricostruzione della cerimonia di nozze per gli antichi romani.
***
La cerimonia delle nozze non era necessaria alla costituzione del vincolo giuridico fra gli sposi; ma la tradizione e il carattere sacro che vi si annetteva ne facevano l’avvenimento più importante della vita familiare.
Il giorno delle nozze era scelto con cautela in mezzo a una selva di giorni e di mesi di cattivo augurio, che la superstizione dei Romani evitava più che non facciamo noi col venerdì. Guai, per esempio, a sposarsi di maggio! Il periodo migliore per sposarsi con fausti auspici era la seconda metà di giugno.
Alla figlia delle nozze la sposa consacrava a una divinità i balocchi della sua infanzia; poi, vestito sin dalla sera l’aito nuziale in luogo dell’abito di fanciulla, e postasi in capo una cuffia di colore arancione, così ornata si coricava. Il giorno delle nozze la casa era addobbata a festa; dalla porta e dagli stipiti pendevano corone di fiori, rami di alberi sempre versi, come il mirto e il lauro, e bende colorate; sull’ingresso si distendevano dei tappeti. Nelle case patrizie, come sempre nei giorni solenni, si aprivano gli armadi che custodivano le immagini di cera degli antenati. Le maggiori cure erano dedicate, naturalmente, alla sposa che si faceva bella per la cerimonia; della toilette nuziale erano caratteristiche l’acconciatura dei capelli e il vestito col velo. Per la prima volta la sposa ornava i capelli con bende e veniva pettinata in un modo speciale, che divideva i capelli in vari gruppi. L’abito nuziale era una tunica, simile come taglio alla stola delle matrone, lunga sino ai piedi, semplice e bianca; una cintura, i capi della quale erano tenuti insieme da un nodo speciale, la faceva aderire alla vita. Dalla testa della sposa scendeva, sino a coprirne il volto, il flammeo, un velo che dobbiamo supporre di un colore arancione per metter d’accordo gli epiteti di rosso e di giallo con cui viene indicato.
In tutti gli atti del rito la sposa era assistita dalla pronuba, una matrona che, per poter essere onorata di tale ufficio, doveva avere avuto un solo marito. Il rito cominciava con un sacrificio augurale, si prendevano, cioè, gli auspici: se il sacrificio avveniva regolarmente, era segno che gli dei non avversavano la nuova unione.
Terminato il sacrificio, seguiva, di regola, la sottoscrizione del contratto di matrimonio, in presenza di dieci testimoni; quindi la pronuba prendeva le destre degli sposi ponendole l’una nell’altra. Era questo il momento più solenne della cerimonia: tacito scambio di fede tra i giovani sposi, reciproca promessa di voler vivere insieme.
Terminate tutte le formalità, aveva luogo il banchetto. Dopo il banchetto, verso sera, cominciava la cerimonia dell’accompagnamento della sposa nella casa del marito. Ne dava il segno un tentativo di ratto: lo sposo, all’improvviso, faceva finta di strappar la giovane moglie dalle braccia della madre o di chi, in mancanza, ne faceva le veci; mera formalità, in cui si vedeva perpetuato il ricordo del ratto delle Sabine. Si formava, poi, un corteo diretto alla casa del marito. La sposa avanzava portando il fuso e la conocchia, simboli della sua nuova attività di madre di famiglia, ed era accompagnata da tre fanciulli che avessero vivi il padre e la madre; due ne teneva per mano, un terzo li precedeva agitando una fiaccola di biancospino accesa nel focolare della casa della sposa. Gli avanzi abbruciacchiati si distribuivano fra gl’intervenuti, perchè, così si credeva, erano di buon augurio. Seguiva una folla schiamazzante che gridava il grido nuziale “talasse” o “talassio”: parola il cui senso è incerto.
Quando la sposa era giunta alla casa maritale, ne ornava la soglia con bende di lana e la ungeva con lardo di maiale e con olio. Il marito, che aveva preceduto la moglie, stando sulla soglia le domandava come si chiamasse, ed essa rispondeva amabilmente: “ubi tu Gaius ego Gaia”; allora quelli che l’accompagnavano la sollevavano di peso, perchè non toccasse la soglia col piede, e la facevano entrare in casa. Quindi la pronuba faceva sedere la sposa sul letto matrimoniale di fronte alla porta, dov’essa pronunziava le preghiere di rito alle divinità della nuova casa. Con ciò la festa era finita; il corteo nuziale si scioglieva e gl’invitati tornavano alle loro case.