La Campagna di Napoleone ed il topos storico dell’alterità russa
La Russia, pur essendo stata nella storia parte integrante delle evoluzioni politiche europee, ha sempre mantenuto un’accezione di alterità mai veramente risolta, nemmeno dopo la caduta del muro di Berlino.
Esistono poi dei paradigmi storici che sembrano rappresentare quasi una costante nella storia d’Europa, come ad esempio lo scontro franco-tedesco per l’Alsazia e la Lorena, a cui potremmo accostare facilmente la Campagna di Russia, intesa come un assalto dell’Europa proprio a quella entità, vicina eppure così diversa, che ha rappresentato forse più di ogni altra, persino di quella turca ottomana che in fondo è una realtà mediterranea, l’elemento “altro” rispetto al nostro continente.
Quando Napoleone invade la Russia, non ha di fronte uno stato fuori dall’Europa, ma anzi profondamente europeo. È la Russia di Pietro il Grande, di Elisabetta, di Caterina II la Grande, completamente immersa nell’agone politico europeo. Con Alessandro, l’imperatore dei francesi aveva siglato la pace di Tilsit su quella zattera sul Nemunas che avrebbe dovuto delimitare le due sfere d’influenza. Napoleone avrebbe addirittura dovuto sposare una principessa russa per suggellare l’accordo. Le evoluzioni politiche dei due imperi, l’insofferenza russa verso il blocco continentale, porteranno le due potenze di nuovo a scontrarsi.
Ora Napoleone deve fare la guerra alla Russia conducendo un esercito composto da francesi, tedeschi, italiani, austriaci, ungheresi, polacchi, e quale miglior modo per cementarlo di raffigurare se stesso, in maniera ideologico/propagandistica, nella qualità di campione della civiltà europea contro la barbarie asiatica? Lo seduce l’idea di riportare la Russia fuori dal consesso europeo come elemento di alterità, giocando su una atavica visione del mondo russo, mai del tutto sopita nelle popolazioni europee.
Adesso la Russia torna ad essere quella nebbiosa area geografica abitata da irriducibili popolazioni mai domate nemmeno dalle legioni romane. La Russia degli sciti, dei sarmati. Le immense steppe asiatiche tornano ad essere fucina delle minacce all’Europa proprio come dopo la caduta dell’impero d’Occidente.
La Grande Armata diviene dunque la potenza nullificatrice di sartriana memoria, che ha bisogno dell’annullamento e della negazione dell’altro per autodeterminarsi e a tale scopo lo definisce. L’impero c’è fintanto che esiste un nemico da combattere che sia la rappresentazione per antonomasia dell’estraneo. Così la Campagna di Russia diviene a tutti gli effetti il primo strumento messo in atto da Napoleone per concretizzare quel progetto di imperialità continentale che da tempo lo assillava, col superamento del particolarismo nazionale. Un paradosso rispetto al periodo che sempre più si qualificherà come l’epoca dei nazionalismi, tanto da costargli la corona, ma certamente in anticipo rispetto a quanto avverrà molto più tardi in Europa.
Eppure questa costruzione ideologica non arriva sino alle estreme conseguenze che si avranno invece quando si scontreranno due diverse visioni del mondo, incarnate ancora una volta geograficamente dall’Europa, questa volta nazista, e dalla Russia ora sovietica.
«Dopo la vittoria non ci sono più nemici, ma solo uomini», questo è quanto avrebbe esclamato all’indirizzo di un suo sottoposto l’imperatore dei francesi quando gli fecero notare che il ferito per il quale ordinava cure immediate e che lo aveva tanto sconvolto era «solo un russo».
La contrita figura di quel grande conquistatore stava vagando derelitta sul campo di Borodino coperto di cadaveri. È così che ce la descrive in una delle pagine più efficaci del suo “Storia di Napoleone e della Grande Armata nell’anno 1812” un ispirato Philippe-Paul de Ségur.
Il carnaio della Moscova in quell’inizio di settembre del 1812 faceva cadere il velo che sino ad allora sembrava aver celato al suo sguardo acuto e nervoso il reale significato di quella grande guerra ai confini d’Europa. Un Napoleone afflitto nel corpo e nell’animo si era ostinato ad inseguire il nemico in cerca di quella vittoria decisiva che oramai era definitivamente sfumata.
Questa figura tetra ed amareggiata che ora attraversa muta il proscenio di guerra in quella piana asiatica è il flebile simulacro dell’energico comandate che aveva trasformato l’esercito francese in un rullo compressore capace di travolgere in poco tempo i decrepiti regni dell’ancien régime europeo. A guardia delle ridotte conquistate restavano ormai, tra i vittoriosi francesi, più morti che vivi. Il colpo d’occhio era impietoso. Persino gli agenti atmosferici sembravano rimarcare quella drammatica consapevolezza che ormai si faceva strada nei pensieri dell’imperatore: «si mise allora a percorrere il campo di battaglia: nessun altro aveva mai avuto un aspetto così orribile. Tutto vi contribuiva: il cielo scuro, la pioggia fredda, il vento violento, le case ridotte in cenere, la pianura sconvolta coperta di rovine e di rottami; all’orizzonte, il verde triste e cupo degli alberi nordici; dappertutto, soldati che erravano tra i cadaveri e cercavano cibo persino nello zaino dei compagni morti; ferite orribili giacché le pallottole russe hanno un calibro maggiore delle nostre; e bivacchi silenziosi; non più canti, non più racconti; solo un tetro mutismo». Sembra la descrizione del campo di un esercito di sconfitti e invece i francesi quella battaglia l’avevano vinta. Tuttavia ormai era chiaro a tutti è che non avrebbero più potuto inseguire i loro nemici fino ai confini del mondo. La forza propulsiva della Rivoluzione francese e del conseguente impero napoleonico si esauriva lì, sul campo di Borodino.
I loro nemici, quei pervicaci russi che prima avevano condotto una rapida e ordinata ritirata e poi si erano arrestati per affrontare gli eserciti d’Europa, avevano combattuto con fanatica determinazione. Persino riconoscendo loro una enorme predisposizione al sacrificio e una forza d’animo smisurata però, l’aristocratico francese che sta narrando le gesta della Grande Armata in Russia ci tiene ad inserire alcune specifiche osservazioni, incentrate sull’antitesi, allo scopo di caratterizzare peculiarmente la concezione di quel fatale scontro sulle piane russe. È l’Europa che affronta l’Oriente, è l’erede di Carlo Magno che riunite le genti europee le scaglia contro i barbari oltre i confini del continente, ricalcando di fatto l’immagine propagandistica che lo stesso Napoleone aveva voluto trasmettere a tutti i convenuti nell’incontro di Dresda, prima di avviare la campagna militare. Una riunione di teste coronate che invece di esaltare la figura dell’imperatore dei francesi si rivelò un vero e proprio boomerang: i sovrani d’ancien régime praticamente costretti a parteciparvi fianco a fianco agli uomini emersi dai fuochi della Rivoluzione lo avevano vissuto come un insopportabile affronto, quelli invece che Napoleone lo avevano seguito proprio perché considerato la cuspide rivoluzionaria puntata contro i cadenti regimi della vecchia Europa ora lo osservavano contrariati mentre si raffigurava in qualità di primus inter pares proprio tra quelle antiche casate che avrebbe dovuto affossare definitivamente.
Una propaganda dunque, quella imperiale, che mirava inizialmente a rappresentare gli avversari come barbari, estranei al contesto europeo, e che de Ségur arricchisce con definizioni quasi antropologiche rimarcando la differenza persino nel soffrire tra francesi e russi: «essi parvero sopportare il dolore più stoicamente dei Francesi. In realtà, non erano più coraggiosi nel soffrire, soffrivano meno; i Russi infatti sono meno sensibili, nel corpo come nello spirito, e ciò dipende dalla civiltà meno progredita e dal fisico indurito dal clima».
Benché sull’essenza del nemico l’aristocratico francese facesse cadere la mannaia di un giudizio che potremmo azzardare di definire razziale, siamo ancora lontanissimi dalla disumanizzazione che vedremo esplicitata in maniera terribile nella campagna orientale della Seconda guerra mondiale, ed infatti in altri punti del suo resoconto lo stesso de Ségur non lesina elogi alle “virtù primitive” dei russi.
È proprio l’episodio citato pocanzi che ce lo rende evidente: Napoleone considera il nemico sconfitto, una volta conclusa la fase cruenta dello scontro militare, umanamente alla pari dei suoi stessi soldati. Il ferito va curato che sia russo o francese. Quello che i francesi non riescono a spiegarsi semmai è come sia possibile che quegli uomini mostrino tanta tenacia nel difendere gli interessi di coloro che in realtà nella quotidianità li vessano, come sia possibile che il servo della gleba russo finisca per affrontare con ardimento il nemico del suo stesso padrone. Loro, i francesi, sono lì ai confini del mondo civilizzato evidentemente per portare le insegne del progresso civile in quelle terre desolate. Questa è la percezione che alcuni, fossero ufficiali o uomini di truppa, testimoniano nelle loro memorie rispetto a quella particolare campagna militare. Altri invece mostrano di aver seguito solamente il loro carismatico imperatore, ma in nessun caso il nemico acquisisce ai loro occhi quei tratti subumani che acquisirà nella successiva campagna di Russia, quella nazista, di un secolo e mezzo dopo, come ha evidenziato Omer Bartov nel suo “Fronte Orientale”, facendo luce sugli aspetti ideologici di quell’altra guerra. Per lo storico israeliano lo scontro tra nazisti e sovietici ha implicazioni evidentemente di tutt’altro livello oltre a quelle di pura politica di potenza, come evidenziano in quello scenario i legami profondi tra la Wehrmacht e le politiche di sterminio del regime nazista, persino quando queste ultime erano in completo contrasto con la logica delle operazioni strettamente militari, le esigenze della logistica, e i bisogni dell’economia della guerra. Insomma per i soldati di Napoleone il nemico russo tutt’al più è barbaro ma pur sempre un essere umano. Nella propaganda acquisisce il valore di estraneo, orientale, ammantato di un coacervo di retrivo e superstizioso retaggio culturale che lo accomuna più alle popolazioni delle steppe asiatiche che alla civile Europa. D’altra parte per i russi i francesi sono paragonabili ad una razza di cavallette arrivate a bruciare la loro terra, e Napoleone non è altro che il Moloch, così come lo definisce l’imperatore Alessandro in uno dei suoi proclami alle truppe. Dunque, quella tra francesi e russi nel 1812 è sì una battaglia ideologica propria dei conflitti post-rivoluzionari, da una parte si innalza la bandiera del progresso civile e dall’altra la difesa delle ataviche tradizioni, ma questo scontro non produce come conseguenza l’esasperazione nella sua accezione ultima di sterminio totale dell’avversario.
Nell’entrare finalmente a Mosca, Napoleone raccomanda a Murat e alla sua avanguardia di rispettare la massima disciplina. Non ha condotto le sue armate sino a quella lontana città per sterminarne la popolazione. A Mortier, nominato comandante della piazza, intima «niente saccheggi! Me ne risponderete con la vostra testa. Difendete Mosca da tutti e contro tutti».
I saccheggi arriveranno, ma solo dopo che l’incendio della città appiccato dagli stessi russi segnerà uno spartiacque nella campagna militare. A quel punto Napoleone, con una città ormai deserta e devastata dalle fiamme resterà impassibile ad osservare colonne di razziatori portare via tutto quello che riusciranno a trovare in quelle abitazioni semidistrutte.
Adesso lo scontro ideologico ed etnico contro l’entità “estranea” della Russia zarista, con cui Bonaparte aveva voluto mascherare la lotta per l’egemonia in Europa si tramuta in una rotta dai tratti quasi epici. «È Cambise avvolto dalle sabbie di Ammon, è Serse che ripassa l’Ellesponto in una barca; è Varrone che riconduce a Roma gli avanzi dell’esercito di Canne», come la descriverà Alexandre Dumas.
Per lo storico l’analogia è un’arma a doppio taglio, ma resta forse uno degli strumenti più efficaci per raccontare un evento se utilizzata con le dovute cautele. Bisogna però considerare che è una freccia all’arco anche della propaganda.
Napoleone era stato letteralmente tormentato dal fantasma di Carlo XII che lo perseguitò, varcato il Niemen, fino a Mosca. E non ci è difficile immaginare che abbia rivolto un pensiero proprio al sovrano svedese mentre osservava dal Cremlino la capitale religiosa russa avvolta dalle fiamme. La lezione napoleonica sembra invece essere stata completamente dimenticata dai nazisti poco più di un secolo dopo, troppo intenti com’erano ad affermare il sacro furore catartico della loro lotta ideologica contro un nemico subumano. Per i russi, in quel caso, un redivivo Aleksandr Nevskij doveva accompagnare l’offensiva contro i nuovi cavalieri teutonici, che li avrebbe condotti sino a Berlino nella Grande guerra patriottica.
L’imperatore dei francesi aveva portato sulle rive del Niemen tutta l’Europa e la disputa non poteva che assumere dei connotati di scontro di civiltà, eppure per quanto le battaglie fossero cruente e le conseguenze del passaggio di una tale massa d’uomini in armi devastanti, non si superò mai la linea dell’aberrazione, e il nemico restò un avversario da battere in campo che una volta fuori dal contesto bellico e reso inoffensivo veniva sostanzialmente rispettato. Non mancarono diversi episodi di combattimenti cavallereschi, quasi di un’altra epoca, e le fulgide figure dei comandanti francesi finirono per ricevere spesso l’ammirazione degli avversari, come testimonia la particolare simpatia dei cosacchi per l’esuberante Gioacchino Murat. Discorso del tutto diverso un secolo e mezzo dopo, quando le truppe di Hitler invasero la Russia sovietica. Lì si scontravano due blocchi ideologici contrapposti, i soldati erano stati ferocemente indottrinati affinché vedessero nell’ “altro” l’antitesi di quanto loro stessi rappresentavano, una dicotomia insanabile tra il bene e il male, tra la razza eletta e le razze inferiori. I cani della guerra, in quel particolare contesto, non ebbero più guinzaglio né alcun tipo di freno, l’unica soluzione praticabile era lo sterminio totale del nemico.
L’alterità del mondo russo rispetto all’Occidente non si risolse con la fine del nazismo, la Guerra fredda ne sancì solo una nuova fase, fatta di cortine di ferro e muri di Berlino, di Vietnam ed Afghanistan ma anche parossisiticamente rappresentata nell’immaginario cinematografico occidentale da film come Alba Rossa, Rocky IV, Rambo III, Firefox, Caccia a Ottobre Rosso, che finirono per normalizzare quella dicotomia e anticiparono di fatto tra gli anni ’80 e ’90 la Perestrojka. Con la caduta del muro, però, la Russia tornava nel consesso occidentale, il capitalismo e le liberalizzazioni sfrenate la integrarono nell’alveo della finanza internazionale di stampo liberista americana e le facevano assumere i connotati di un prezioso partner con il quale fare proficui affari. L’alterità sembrava accantonata. Non è andata così. La guerra in Ucraina inaugura ora una nuova fase. Il pendolo torna ad oscillare verso una rappresentazione dell’Orso russo in antitesi al mondo occidentale. La stessa esistenza della Nato dopo la caduta del muro di Berlino e la stretta progressiva all’area geografica del Patto di Varsavia, con una lenta ma inesorabile erosione della sfera di influenza della Russa, denunciano probabilmente che l’idea di contrapposizione in blocchi non era mai stata veramente abbandonata dai comandi occidentali.
Autore articolo: Giuseppe De Simone, laureato in Scienze Politiche indirizzo storico, presso la Sapienza – Università di Roma, con una tesi in Storia Militare su “L’esercito francese e la Guerra d’Algeria”, è studioso di storia del Mezzogiorno d’Italia.