La Battaglia di Tripoli del 1825
Dopo il Congresso di Vienna, pur essendoci la pace tra le nazioni europee, quelle che trafficavano nel Mediterraneo dovevano fare i conti con le attività corsare perpetrate dal Marocco, dalla Grecia e dai porti di Algeri, Tunisi e Tripoli.
Gli Stati della penisola italiana avevano grandi problemi finanziari e poche navi per difendere le proprie navi mercantili e perciò avevano stipulato accordi con le reggenze musulmane d’Africa che, formalmente sottoposte all’autorità dell’impero turco, erano, di fatto, piuttosto autonome e si finanziavano con azioni piratesche a danno degli Stati rivieraschi della penisola.
I Borbone, mentre costruivano una loro flotta militare, avevano stipulato con Tripoli degli accordi che si rivelarono inutili e dispendiosi perché i barbareschi sotto falsa bandiera, continuarono a depredare fin dentro il golfo di Napoli.
I Savoia trasferirono da Villafranca, nella contea di Nizza, a Genova la loro base navale e, per contrastare le scorrerie dei pirati che risalivano il Tirreno, dettero avvio, nel cantiere della Foce, alla costruzione di due fregate di cui una finanziata dai commercianti genovesi.
A capo della Marina, confermarono l’Ammiraglio Giorgio Andrea Des Geneys, già comandate della flotta sarda negli anni della residenza dei reali in Sardegna per l’occupazione francese della parte continentale del regno. Proprio Des Geneys durante la sua carriera, culminata con la nomina a capo sia della Reale Marina che dei Reali Carabinieri, nel 1786 abbordò e catturò una nave barbaresca cannoneggiata dalla San Vittorio, assunse il comando della preda e la condusse in un porto sardo. Tre anni dopo, nel luglio 1789 intercettò e catturò un tre alberi pirata tunisino e, ancora nel settembre 1804, catturò due navi armate tunisine mentre nel giugno 1806 catturò una imbarcazione con ventisette tunisini, che furono scambiati con altrettanti sardi ridotti in schiavitù. Nel luglio 1811, una flottiglia da lui organizzata catturò due delle tre navi corsare intercettate al largo di Capo Teulada e nel 1813 soccorse alcuni pescatori della tonnara dell’isola di San Pietro, aggrediti dai barbareschi, riuscendo a evitarne la cattura. Nell’estate del 1815 una flotta di pirati tunisini, composta da tre fregate, tre gabarre, tre brigantini, tre sciabecchi e altre sei navi minori, catturò schiavi a sud di Salto di Quirra, poi respinta dalla Gallura comparve, a metà ottobre, nel golfo di Cagliari ove tentò degli sbarchi e poi si diresse a Sant’Antioco dove, sotto falsa bandiera inglese, riuscì a sbarcare, assalì e prese il forte a protezione della cittadina, saccheggiò l’abitato e distrusse tutto ciò che non poté predare; furono trasportati a Tunisi e venduti come schiavi 158 sudditi del re di Sardegna; il console napoletano di quel tempo in Tunisia riferì che i corsari erano riusciti a predare circa 500 persone nella spedizione lungo le coste italiane.
L’incursione a Sant’Antioco suscitò clamore in tutta Europa tanto che l’Inghilterra inviò in Africa una potente squadra navale al comando dell’ammiraglio Exmouth, per costringere i tre Bey di Tunisi, Algeri e Tripoli a cessare le attività piratesche. Il Bey di Algeri, Umar ben Muhammad, firmò un trattato con cui assicurava la libertà di commercio e ugualmente il Bey di Tripoli, Jussuf, accettava la creazione di un Consolato del Regno Sardo a Tripoli; dopo alcuni nuovi assalti pirateschi algerini, a fine agosto 1816, la flotta inglese, riunitasi alla squadra navale dell’ammiraglio olandese Van Capellen, si diresse ad Algeri, la bombardò per nove ore, affondò tutte le navi presenti, rase al suolo le difese della città e la occupò militarmente. Va ricordato che la Regia Scuola di Marina, voluta dal Des Geneys, iniziò a operare a Genova proprio dal 1816 costituendo una delle scuole dalla cui fusione fu fondata l’Accademia Navale di Livorno.
Nel 1822 una squadra sotto il comando di Des Geneys, composta dalle fregate Maria Teresa e Commercio di Genova, dai brigantini Nereide e Zeffiro e dalla goletta Vigilante, toccò i porti di Tunisi, Algeri e Tangeri e portando al rinnovo di trattati commerciali con tali Paesi. Nel febbraio 1825 il console del Regno Sardo a Tripoli, Gio Batta Parodi, si ammalò e per curarsi fu autorizzato a rientrare mentre veniva surrogato nel suo incarico dal vice console Foux, proveniente da Corfù; il Bey di Tripoli interpretò tale surrogazione come sostituzione del console e chiese il pagamento delle cinquemila piastre, dono previsto a ogni cambio di console, secondo il concordato del 29 Aprile 1816, sottoscritto con l’ammiraglio inglese Exmouth per conto
del Regno di Sardegna. Avutene mille ma essendogli stato rifiutato il pagamento delle restanti quattromila, il Bey ordinò il sequestro di tutti i beni sardi che si trovavano a Tripoli e dichiarò guerra, il 7 Agosto, al Regno di Sardegna inviando, il 23 dello stesso mese, diversi corsari a caccia di navi sarde.
Il Re Carlo Felice incaricò allora il Comandante Generale della Regia Marina di far fare scalo anche a Tripoli alla divisione navale, in corso di preparazione per accompagnare i nuovi Agenti Consolari nei porti di Corfù, Alessandria d’Egitto, Beirut, Cipro, Rodi, Smirne, Dardanelli e Salonicco, di catturare le navi nemiche incontrate, pur usando moderazione e di minacciare, sempre salvando il decoro del Bey, il blocco navale di Tripoli; se ciò non avesse portato risultati, di dare inizio alle ostilità… dopo aver allontanato le navi da trasporto.
La divisione era costituta da due fregate (Commercio di Genova con 44 cannoni e Maria Cristina con altri 44 cannoni), da una corvetta (Tritone con 20 cannoni), un brigantino (Nereide con 14 cannoni) e da quattro bastimenti mercantili da trasporto; il comandante del Commercio, il Capitano di vascello Francesco Sivori, è anche il comandante della Divisione.
Il 5 settembre parte da Genova il Cristina per Tunisi per imbarcare una missione turca e restare in attesa delle altre navi. Il 6 settembre parte da Genova il Tritone per contrastare i corsari tripolini e attendere, davanti alla città, la divisione. Il 10 settembre partono da Genova il Commercio e il Nereide e quattro mercantili carichi di uomini e masserizie dei vari consoli; il poco vento li fa scendere lentamente lungo le coste orientali della Corsica e della Sardegna; incontrano alcuni mercantili e a tutti chiedono notizie dei corsari, viene loro confermato che il Bey di Tripoli è in guerra col Regno Sardo. Dopo quattordici giorni di navigazione, il 24 settembre e al largo di Tripoli, si riunisce la divisione; il mattino successivo, 25 settembre, il Tritone si avvicina a due miglia dal porto e si mette in panna, a riva ha alzato la propria bandiera e quella inglese per parlamentare con quel console. Con una galiota latina a tre alberi, battente bandiera inglese, arrivano a bordo il vice console sardo e il vice console inglese e li raggiunge un ufficiale del Commercio che porta le richieste del Sivori: scendere a terra e conferire con il Pascià Bey per trattare. Il console inglese suggerisce che l’incontro abbia luogo nel proprio consolato, territorio neutrale; la proposta viene accettata e ognuno rientra alla propria base mentre il Tritone rimane sulle vele, in panne.
Il lunedì 26 settembre il Capitano di vascello Francesco Sivori scende a terra e, ricevuto dal console inglese Warrington, si reca in quel consolato; in mare le navi si ancorano fuori vista dal porto.
Il Bey Jussuf invia a parlamentare il generale d’armata Haggi-Mohamed il quale pare propenso a trovare un accordo e rinvia all’incontro del mattino successivo la definizione delle clausole.
Martedì 27, con sua grande sorpresa, il Sivori si vede consegnare una nota con cui si avanzavano richieste più esose di quelle contenute nel trattato precedentemente in vigore; richieste che ritiene esagerate, inammissibili e alle quali replica richiedendone altre più accettabili entro il termine di quattro ore, passate le quali avrebbe iniziato le ostilità.
Non avendo ottenuto risposte allo scadere dell’ultimatum, considerato il poco vento da nord e il mare agitato, che ostacolavano la manovra per attaccare la città coi cannoni delle navi, il Sivori decide di organizzare un assalto notturno contro le navi del Bey ormeggiate in porto.
Le principali imbarcazioni barbaresche ormeggiate sotto la protezione dei cannoni dei quattro forti sono un brigantino da dodici cannoni sotto il palazzo del Bey, due golette da sei cannoni nel porto militare e diversi sciabecchi armati nel porto mercantile. Alla fonda, presso l’imboccatura del porto c’è pure un brigantino (oppure corvetta) olandese, incaricato di trattare col Bey per conto del suo governo.
Tenuto il consiglio di guerra con i comandanti delle navi, nel pomeriggio del 27, cominciano i preparativi.
A sera, verso le 10, si odono i cannoni della città sparare una decina di colpi ed echeggiano anche numerosi colpi di fucile.
Il piano prevede l’assalto alle navi, la loro cattura e il loro rimorchio fuori dal porto o, in alternativa se ciò non fosse realizzabile, renderle inutilizzabili incendiandole.
A questo scopo sono disponibili fascine di erica impregnate d’olio, battifuoco (acciarini), bottiglie d’acqua ragia e bottiglie piene di polvere da sparo. Il segnale di rientro è il lancio di due razzi dalla barca del comandante della spedizione.
Si utilizzeranno le imbarcazioni disponibili e cioè le barcacce, più capienti e armate con una carronata e le lance dotate ciascuna di un cannoncino; gli assaltatori sono 260, il comando al Tenente di vascello Giorgio Mameli, padre dell’autore dell’inno nazionale. La prima squadra ha come obbiettivo il brigantino nemico ed è composta dalla barcaccia del Commercio (dove Mameli congedandosi dal Sivori che lo incoraggiava, disse: “Signor Comandante se, da questo luogo fra poco Ella non vedrà cessato il fuoco de’ nemici, dica pure: morto è Mameli”) e dalla barcaccia e dalla lancia del Cristina (STV Millelire e GM Carlo Persano).
La seconda squadra deve prendere le golette ed è formata da tre lancie, due del Cristina (STV Pelletta e STV Bargagli) e una del Commercio (STV Todon del Battaglione Real Navi).
La terza squadra deve occuparsi degli sciabecchi e impedire l’arrivo di aiuti alle navi attaccate, si basa sulla barcaccia del Tritone (STV Chigi e GM Scoffiero), sulla barcaccia del Nereide (STV Tanca) e sulla lancia del Commercio (GM Tholosano).
La lancia del Tritone (GM Malaussena) deve dapprima avvisare la nave olandese dell’attacco in corso e poi recarsi in supporto agli altri. Quattro lance dei trasporti, (GM Dodero e GM Dinegro) debbono fornire un diversivo simulando l’attacco alla città dal lato occidentale.
Per entrare nel porto e portare l’attacco è necessario sfilare davanti alle batterie dei forti che lo difendono e bisogna passare o nei varchi tra gli scogli o nel passaggio di levante, quello utilizzato dalle navi, che richiedeun giro più ampio. Alle undici di sera tutte le barche si radunano a poppa del Nereide per essere prese a rimorchio; mezz’ora dopo mezzanotte il brigantino mette in vela e col favore del vento le rimorchia fino davanti al passaggio di levante, a due miglia dall’obbiettivo: si è preferito evitare i rischi d’incaglio negli scogli.
Gli assaltatori si addentrano nel porto in silenzio, vogano con gli scalmi e i gironi dei remi fasciati. Hanno superato il primo forte quando, alle ore due e trenta, viene dato l’allarme da una sentinella. I forti, le navi e le truppe barbaresche, dalle mura e dalla spiaggia, aprono un fuoco vivace, continuo ma per fortuna infruttuoso perché l’oscurità della notte nascondele imbarcazioni già oltre la zona in cui sonodiretti i colpi.
La prima squadra giunge rapidamente sotto il brigantino, a breve distanza fa fuoco con la carronata e coi cannoncini, va all’abbordaggio; primo a balzare sulla coperta nemica è il secondo nostromo Giovanni Bottini, detto Capurro e con lui Tazza, Persano, il timoniere Belledonne e tutti gli altri marinai. Il Capurro è mortalmente ferito ma i tripolini, senza più gli ufficiali, uccisi dalla mitraglia, sono sopraffatti e si gettano a mare, molti muoiono mentre a bordo chi oppone resistenza viene passato a fil di spada. La seconda squadra assale di slancio una goletta, se ne impadronisce in breve tempo e le appicca il fuoco: il vento ora è forte e contrario al rimorchio.
La terza squadra si scompagina, per l’oscurità, poco dopo l’ingresso in porto: Chigi e 22 marinai, sulla barcaccia del Tritone, arrancando coi remi e nonostante siano fatti segno dei colpi di fucile da parte di un bovo corsaro rientrato sul far della notte e per questo non previsto nel piano d’attacco, assaltano e incendiano alcune imbarcazioni mercantili, poi due sciabecchi ancorati alla punta della dogana, forzano gli equipaggi a gettarsi a mare. Sopraggiungono dalla Porta Dogana circa cinquecento soldati nemici, li lasciano avvicinare, poi li investono con la mitraglia della carronata e coi fitti colpi della moschetteria, in breve li costringono alla fuga lasciando il terreno coperto di cadaveri.
La barcaccia del Nereide comandata dal Tanca, assale e incendia l’altra goletta.
La scialuppa del Commercio al comando del guardiamarina Tholosano e quella del Tritone con il guardiamarina Malaussena, dopo che quest’ultima ha avvisato gli olandesi, giungono in rinforzo e partecipano alla lotta.
Alle quattro di notte tutte le navi nemiche sono in fiamme, l’obbiettivo è raggiunto, il Mameli lancia due razzi e dà il segnale del rientro; i piovaschi impediscono una corretta mira ai barbareschi che continuano a sparare e l’intera squadriglia guadagna l’uscita del porto; viene raggiunta da una lancia del Tritone con il medico Canobbio che presta i primi soccorsi ai feriti. Alle cinque tutte le imbarcazioni raggiungono le proprie navi, hanno perso un solo uomo e sei sono feriti, uno mortalmente: il soldato Real Navi Micheletti. Al sorgere del giorno e col rinforzare del vento, la Squadra sarda si allarga bordeggiando dalla costa per prepararsi a sferrare un nuovo attacco; nel pomeriggio, a dieci miglia a Nord di capo Tagiura, viene raggiunta dal brigantino olandese che spara una salva di saluto di 11 colpi; si risponde con un’eguale salva, poi, il suo comandante sale a bordo del Commercio. Ai complimenti per la brillante azione compiuta viene risposto che l’intenzione è quella di colpire ancora la città se non ci sarà accordo.
Il brigantino rientra in porto e si ripresenta il mattino successivo portando il console Warrington: ha una proposta da parte del Bey in cui si riconosce la piena validità del precedente trattato rinunciando a tutte le altre richieste.
L’accordo è raggiunto e la bandiera sarda viene alzata sul consolato salutata da 29 salve di cannone della piazza e da 21 della Divisione navale; il console Parodi rientra nel suo incarico.
Il comandante Sivori, accompagnato dal suo Stato Maggiore e dagli ufficiali delle altre navi è invitato a fare visita al Pascià Bey: la cerimonia si svolge con grande solennità, gli equipaggi delle imbarcazioni ricevono gratifiche dal Bey che, a sua volta, è trattato con tutti i riguardi dovuti alla sua carica. Si viene a sapere, in seguito, che il brigantino olandese ha trattato e pattuito col Bey un tributo annuo di cinquemila piastre.
Si rinnovò quindi la sospensiva delle azioni di pirateria, senza che avvenisse il pagamento di alcun tributo da parte sarda.
Seppellito il Capurro con solenni funerali, alla presenza dei consoli e a spese del Bey, la squadra riparte, verso Alessandria d’Egitto, per proseguire nella sua missione.
Dopo questa azione la pirateria non cessò del tutto e la storia riporta: nel 1825, dopo i fatti di Tripoli, la Regia Marina Sarda intervenne a Tunisi e con la sua presenza ottenne dal locale Bey la restituzione di una nave da carico sequestrata senza valida ragione; nel Luglio 1826 il brigantino Nereide venne assalito dai pirati greci, ma fu salvato dalle barche della fregata Maria Cristina e della corvetta Tritone con le quali stava andando verso Odessa; nel 1830 la fregata Maria Teresa partecipò a una azione contro il Bey di Tunisi che creava problemi alla navigazione commerciale.
Con il bombardamento dell’agosto 1830 e la definitiva conquista di Algeri da parte delle truppe di Carlo X di Borbone, Re di Francia, cessò la pirateria algerina.
Un mese più tardi anche il Bey di Tunisi sottoscrisse un trattato nel quale rinunciava all’attività corsara. Così pure, pochi giorni dopo, Tripoli firmò lo stesso trattato. Nel marzo 1833, la squadra navale sarda bombardò il porto e sbarcò truppe a Tunisi in una missione congiunta con la marina borbonica contro il Bey a seguito della cattura di una feluca sarda. In seguito a questa azione il Bey si decise infine a cedere ed a rendere omaggio alla bandiera sarda. Con questa azione si concluse la millenaria lotta delle marinerie italiane contro la pirateria barbaresca.
Autore articolo: Gianluca Bertozzi
Bibliografia: “I cannoni del Tritone articolo di Piero Carpani”, Rivista marittima
Gianluca Bertozzi, laureato in Giurisprudenza, è studioso di storia militare