La Battaglia di Fornovo raccontata da Bernardino Fortebraccio
La Battaglia di Fornovo raccontata da Bernardino Fortebraccio, figlio di Braccio da Montone, dai documeti di Storia Universale compilati da Cesare Cantù.
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Replicherò particolarmente a Vostra Magnificenzia, della qual son deditissimo, quello che la donna mia le scrisse in poche parole, acciocchè la intenda quanto è succeduto di questo fatto d’arme. Dio sa che non mi parea tempo di venir alle mani con gl’inimici. Volevo lasciar che si movessero, chè si sariano rotti da loro stessi. L’illustrissimo Marchese di Mantoa deliberò altramente, et diede dentro da Cesare. A me toccò il secondo colonelo; lo ordinai, e andai al loco mio. Alcuni dei nostri pervertirno l’ordine, et ne fecero danno a tutti, Il terzo colonelo toccò al Conte de Gajazzo: ognuno diede l’assalto al loco suo. Io procedeva all’impresa mia bene armato, et ben a cavalo. Combatemo un pezzo, et andammo al basso. Fui affrontato da un cavalier, che portava sopra l’arme una veste de veluto negro et oro, a falde. Combatemo alquanto, e finalmente restò ferito da me, et se mi rese per prigione; non dico a me, ma all’illustrissima Signoria; che in altro modo non dimandai mai che si rendesse. Mi dimandò la vita, et gli la promisi; mi diede il suo stoco, et lo puosi alla mia cadenela dell’arzone; mi porse il suo guanto in segno di captività, et lo gittai in acqua, et consignai la persona sua al mio ragazzo. Procedei più oltra, et presi un altro; et successivamente in subito fin al numero di quatro, do dei quali sono, a mio giudizio, di qualche condicione. Erano bene ad ordine, et tra le altre cose haveano le loro cadene d’oro al colo; in modo che io havevo al mio arzone quatro stochi de nemici. Seguitai combatendo verso ‘l stendardo reale sperando d’esser seguitato et aiutato dalli nostri, con disegno di condur nel felicissimo nostro esercito o tutto o parte dell’insegna reale. Fui affrontato vicino ad essa insegna da un granmaestro ben a cavallo, et fussimo a le mani. Gli dissi che si rendesse, non a me, ma all’illustrissima Signoria: mi rispose che non era tempo. Spinsi ‘l cavallo, e gli tirai della spada nella gola: ma ad un suo crido fui assaltato da quatro cavalieri, et fui con loro a battaglia. Non voglio dir quello ch’io feci; ma combatendo contro otto, fui prima ferito d’una zeta (accetta) nella tempia, poi nella copa (collottola) pur di zeta, et restai stornito; et ad un istesso tempo, una lanza restata mi urtò nella schena, et mi gittò a terra mezo tramortito. Poi mi furno addosso, et mi diedero dodici ferite; sette sull’elmo, tre nella gola, et do nelle spalle. Iddio benedetto mi aiutò, che mi havevo posto sotto l’elmo un mio gorzerino dopio, il qual mi salvò la vita: chè le ferite che io ebbi nella gola mi haveriano dato la morte tante volte quante furno; ma non penetrorno. Ma quelle che io ebbi, mi hanno data tanta passion, quanta dir si possa. Fui lassato per morto, et fui abandonato da ogn’uno del mio colonelo; il qual se fusse stato soccorso, non veniva conculcato da cavalli. Fui strassinato da un mio ragazzo in un fosso; persi i corsiero, un ragazzo, et un servitor che mi havea servito lungamente: alcuni altri dei miei più cari perseno i cavalli: et in questa fattione pioveva grandemente. Cessato i fatto d’arme, fui portato in campo al mio padiglion. Li magnifici Proveditori furno a visitarmi, ma io non mi n’avidi, chè ero più morto che vivo; in modo che mi fu raccomandata l’anima. Fui portato qui in casa di maestro Andrea Bagiardo, huomo da bene: furno chiamati i medici, i quali non si curando di medicar le ferite, fu mandato a Bologna per un medico da Parma mio conosciuto; il qual prima che arivasse un suo fratello venuto qui a caso m’havea levato tre pezzi d’osso della testa, in modo che mi restò ‘l cervello discoperto per quanto saria un fondo di tazza; perchè di tre ferite ne fece una sola. Giunse poi qui la donna mia, et cool studio et sollecitudine sua son ridotto per grazia di Dio, ad assai buon termine, in modo che spero di salute. Ogni mal mi par niente, pur che habbi fatto cosa grata alla illustrissima Signoria et a quel glorioso Senato. Non mi curarei della vita, purchè l’esercito del nemici fusse del tutto restato sconfitto. Mi par mill’anni a liberarmi del tutto, et poter tornar appresso l’illustrissimo Marchese nel felicissimo nostro esercito; dove, accorrendo, mostrerò a pieno la mia vera servitù et fede; chè son Marchesco, come sempre ho detto. Mi è stato di grandissima consolazione et sussidio, in tempo de sì grave caso, l’arivo di Rafael mio, con quella lettera dell’illustrissima Signoria, piena di umanità e di dolcezza : e veramente non sento nè doglia nè passion, conoscendo di aver fatto cosa grata ad essa illustrissima Signoria; et certamente ho più stimato le proferte che mi sono fatte nelle lettere, che li danari che mi son stà mandati. Laudato Dio. Non stimo nessuna cosa più che esser in gratia del mio patrone. Hozi mi è dato un’altra lettera pur dell’illustrissima Signoria, che dice quanto li è accetto il mio servicio, e mi ha mandato qui maestro Andrea Morandino, eccellentissimo cerusico, il qual mi ha dato buon animo, et mi dice di volermi condur fin dieci giorni a Vinezia. Li mi libererò affatto, chè potrò far reverentia a quel glorioso Senato, e gli dirò cose assai che non voglio scriver. La donna mia scrisse all’illustrissima Signoria, et le ricercò per conto mio maestro Giovanni de Tristan da Venetia.phisico, che è mio familiarissimo, et mio medico già quatordici anni; egli è nelle forze dei signori Avogadori. Spero che fin hora sia partito; ma quando non sia, prego Vostra Magnificenzia che si adoperi che ‘l sia mandato. Io ho gran fede in lui, cosa che conforta grandemente l’amalato. Prego Vostra Magnificenzia che non mi manchi, acciocchè possiamo navicar più sicuramente. Questa note ho reposato meglio dell’usato, per grazia de Dio. Di quanto succederà, la farò tener avvisata. Mi raccomando.
Di Parma, a Xx di luglio Mccccxcv. Bernardin de Fortis Brachiis Comes, Eques armorum.
« Voglio dir queste parole, le quali non posso tacere. Eremo atti a romper quello et maggior esercito, se li nostri havessero atteso a la vittoria, e non a li cariazi; come particolarmente ragionerò a boca con Vostra Magnificenzia, se così piacerà al Signor Dio ».