Introduzione alle vicende politiche del Viceregno spagnolo di Napoli

Con l’ingresso in Napoli nel gennaio del 1504 del Gran Capitano, Consalvo de Cordoba, sotto i vessilli di Ferdinando il Cattolico, si inaugurava, tra grandi onori e festeggiamenti, quella che si sarebbe rivelata la longa aetate del Viceregno spagnolo di Napoli. L’impresa pose termine al dominio aragonese che durava dal 1442 e consegnò alla Corona spagnola le terre del Reame di Napoli.

Dopo Cordoba, fu la volta del viceregno di Giovanna d’Aragona, già regina di Napoli fino al 25 gennaio del 1494, poi, di numerosi altri che si alternarono, talvolta con evidenti ed ineccepibili doti amministrative, talvolta meno, alla carica di Viceré. Tra di essi sicuramente quello che la storiografia più ricorda per capacità e meriti – siamo nell’età di Carlo V d’Asburgo sovrano sul cui impero “non tramontava mai il sole” – è don Pedro Alvarez de Toledo, Marchese di Villafranca, secondogenito di Federico di Toledo, Duca d’Alba, e di Maria Ossorio Pimentel. Pedro de Toledo, in effetti, governò fino al 1553 con tempra ingegnosa, attento amministratore nei campi della giustizia, dell’economia e dell’urbanistica, morì a Firenze il 2 febbraio 1553 dove fu sepolto nel locale Duomo, e non nel monumentale sepolcro che si era fatto costruire da Giovanni da Nola nella Reale Basilica Pontificia di San Giacomo degli Spagnoli, nell’attuale Piazza Municipio a Napoli.

Di li a pochi anni la storia ribadì la centralità politica, nella scena internazionale, del trono cattolico di Spagna. Filippo II, spada della Controriforma, diveniva, infatti, il faro della politica europea, capace, nel continente, di oscurare con protervia la Francia ed Amsterdam, epicentri del protestantesimo, e, nelle acque del Mediterraneo, di fronteggiare e respingere le armate turche.
Un giudizio obiettivo sul regno di Filippo II risulta di difficile formulazione perché la sconfitta dell’ “invincible Armada”, che nel 1588 diede inizio al lento declino politico spagnolo, pare offuscarne i precedenti successi, ma non si sottovaluti che la Pace di Cateau-Cambrésis trovò proprio nella Spagna del castigliano Filippo, la risposta alla necessità di un’alleanza tra Controriforma e potere politico in grado col proprio peso internazionale, militare e diplomatico di far valere i deliberati di Trento.

Ciò che maggiormente ci interessa è che il risultato di Cateau-Cambrèsis fu, anche, quello di affermare, ufficialmente, l’assoluto predominio della Spagna sulla penisola italiana che sarà, così, legata fino alla fine del secolo XVII all’orbita di Filippo II e dei suoi diretti successori.
Nel 1559, dunque, le terre dello stivale conoscevano il diretto dominio spagnolo sul Ducato di Milano, sullo Stato dei Presìdi e sui Regni di Napoli, Sicilia e Sardegna. La corona amministrava, cioè, sotto il proprio comando circa la metà del territorio italiano, occupando la Sardegna e la Sicilia già domini aragonesi, il regno di Napoli, conquistato all’inizio del secolo, il Ducato di Milano, ottenuto con la Pace di Madrid del 1526, e lo Stato dei Presìdi, preso e costruito poco prima di Cateau-Cambrésis. Tali domini respirarono in pieno l’aria della controriforma, animata sin dal 1540 dal rigorosissimo Gian Pietro Carafa, nativo di Capriglia Irpina proprio nel Regno di Napoli, asceso al pontificato, nel 1554, col nome di Paolo IV, pur tra l’avversità di Carlo V.

A Filippo II seguirono i duri anni di Filippo III e Filippo IV caratterizzati, oltre che dalle eccessive contribuzioni, anche da incursioni dei pirati barbareschi sulle zone costiere, terremoti, eruzioni ed una spaventosa pestilenza che, nel 1656, dimezzò la popolazione della capitale, che contava, già allora, mezzo milione d’abitanti in un’epoca in cui città come Milano e Roma ne contavano appena centomila; ciononostante fu solo nel giugno del 1707, quando il legame tra Spagna e Chiesa si inclinò, che l’Imperatore d’Austria, forte del sostegno di Papa Innocenzo XII, conquistò Napoli ponendo fine al dominio spagnolo che per due secoli l’aveva governata.

Nonostante nel 1563, Filippo II avesse istituito a Madrid il Supremo Consiglio d’Italia, con ministri spagnoli, uno milanese, uno siciliano e due napoletani, in questi domini, privi di contiguità territoriale e omogeneità storica e culturale, la Spagna non impose uniformità giuridica di governo: la Sicilia, la Sardegna e Napoli erano governati da tre distinti vicerè, mentre Milano dal governatore. Diverse erano pure le magistrature locali che assistevano il delegato regio: in Sicilia c’era un Parlamento, di antica origine normanna e diviso nei bracci feudale, ecclesiastico e demaniale, simile era pure la rappresentanza locale a Napoli e in Sardegna; a Milano, invece, era il senato, risalente all’epoca degli Sforza, a gestire rilevanti poteri nell’ambito giudiziario e amministrativo.

La chiave di lettura di questi due secoli ci è forse fornita dalla attenta analisi di Francisco Elijad de Tajada che individua nell’iniziativa politica della Spagna, guidata dalla Castiglia, sforzi fino all’ultimo protesi al compito di difendere il cattolicesimo romano, la sua concezione della vita e dell’ordine sociale. L’opera dei sovrani di Spagna, per il giurista spagnolo, crollava sotto i colpi dell’avanzata protestante, dell’assolutismo e del giurisdizionalismo che frantumavano definitivamente il passato medioevale degli stendardi cavallereschi e cattolici. La sconfitta della Spagna diviene, allora, la sconfitta del cattolicesimo, scompariva quella società concepita come corpus misticum, che pure in Italia era fiorita, e si intaccavano aspetti giuridici e spirituali in modo pressoché definitivo. Scompariva o forse semplicemente si trasformava.

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

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