Il suicidio di Napoleone
Una stanza riccamente arredata in penombra. La flebile luce di alcune candele a rischiarare l’oscurità della notte. Sul letto, avvolto in lenzuola di seta, un uomo tossisce ripetutamente, sopraffatto da conati che spezzano il faticoso respiro. Al suo capezzale tre uomini che assistono a quella prolungata agonia. Con la voce flebile di un uomo morente colui che fino a poco tempo prima era stato il dominatore d’Europa, l’imperatore Napoleone Bonaparte, pronuncia quelle che paiono le sue ultime parole.
E’ la notte del 12 aprile 1814, e l’astro di Napoleone sta per spegnersi definitivamente. Il giorno prima ha firmato l’atto di abdicazione che i suoi nemici, ormai padroni di Parigi, gli hanno imposto. Fino all’ultimo attraverso l’espediente della reggenza della madre aveva cercato di conservare il trono per suo figlio, nella speranza che i parenti austriaci accettassero ameno questo compromesso. Ma non c’era stato nulla da fare.
«Avendo le potenze alleate dichiarato che l’imperatore Napoleone era il solo ostacolo al ristabilimento della pace in Europa, l’imperatore Napoleone, fedele al suo giuramento, dichiara di rinunciare, per lui stesso e per i suoi eredi, al trono di Francia e d’Italia, e che non c’è nessun sacrificio personale, nemmeno quello della vita, che egli non farebbe nell’interesse della Francia». Dopo aver firmato questo proclama, redatto al palazzo di Fontainebleau, l’11 aprile 1814, l’imperatore si disponeva ad accettare la sorte riservata per lui dai suoi nemici che avevano già pensato all’Elba siglando coi plenipotenziari di Bonaparte il trattato di Fontainebleau lo stesso giorno. Eppure qualcosa dentro di lui si era definitivamente spezzato. L’uomo che aveva sopportato sul campo di battaglia le più grandi avversità senza mai scoraggiarsi, ora piegato da tradimenti e defezioni, soccombeva al peso degli eventi e si dava la morte ingerendo del veleno.
Monsieur Pelard, uno dei suoi maggiordomi di servizio quella sera, lo aveva visto bere dell’acqua dentro la quale aveva sciolto una strana polvere intorno alle dieci e mezza della sera, e preoccupato era corso ad avvisare il primo valletto Louis-Constant Wairy che nella stanza sopra quella dell’imperatore dormiva vestito di tutto punto proprio per essere pronto ad ogni evenienza durante la notte.
«Constant sto morendo!» queste le parole che Napoleone rivolse a Wairy che entrava trafelato nella sua stanza da letto.
Bastò un colpo d’occhio a Wairy per notare riverso a terra, accanto al letto, un sacchetto di pelle e taffetà nero che a partire dalla campagna di Spagna molte volte aveva visto legato al collo dell’imperatore. Ora finalmente riusciva ad intuirne il contenuto.
L’afflizione di Napoleone si palesava nel corpo e nell’anima: «Non sono riuscito a resistere al tormento che provo, soprattutto all’umiliazione di vedermi subito circondato da agenti dello straniero!… hanno trascinato le mie aquile nel fango!… non sono riusciti a capirmi!… Mio povero Constant, mi rimpiangeranno quando non ci sarò più!… Marmont mi ha inferto l’ultimo colpo! Quell’infelice!… io lo amavo!… l’abbandono di Berthier poi mi rattristava troppo!…Miei vecchi amici, miei vecchi compagni d’armi!».
Marmont, maresciallo di Francia, duca di Ragusa, era uno dei più esperti comandanti dell’esercito napoleonico. Al seguito di Napoleone sin dalle sue prime imprese, si era distinto nelle due campagne d’Italia, in Egitto, fino ad Austerlitz. Reso governatore dell’Illiria nel 1806 anche lì fece parlare di sé positivamente per un’accorta ed efficace amministrazione. Impiegato poi in Spagna venne duramente sconfitto da Wellington nella battaglia di Salamanca nel luglio del 1812 e gravemente ferito. Per questo probabilmente non partecipò alla campagna di Russia, ma sarà di nuovo al fianco dell’imperatore nella campagna in Germania che si concluderà a Lipsia.
All’indomani della battaglia di Parigi del 29 marzo 1814, uno degli episodi più cruenti della campagna di Francia, Marmont che personalmente aveva guidato una delle ultime sanguinose cariche contro le preponderanti forze nemiche, rischiando la vita in prima persona, decise insieme a Mortier di chiedere un armistizio di quattro ore per permettere alle truppe francesi di evacuare la capitale. Mentre Mortier faceva retrocedere il proprio corpo d’armata verso il piccolo borgo di Villejuif a sud di Parigi, Marmont aveva il compito di coprire l’evacuazione attestando le proprie truppe sugli Champs–Élysées. Spinto dalla volontà di molti dei rappresentanti e notabili della città di Parigi, preoccupati che la capitale venisse saccheggiata una volta abbandonata dalle truppe francesi, Marmont, firmò una capitolazione che apriva le porte della città alle truppe degli Alleati, per poi acquartierarsi a sud nel villeggio di Essonnes con il suo reparto. Napoleone che incontrò nei giorni seguenti Marmont a Fontainebleau volle mostrargli tutta la sua gratitudine per la conduzione delle operazioni ed il coraggio dimostrato nella battaglia di Parigi, e ed il primo aprile personalmente ad Essonnes passava in rivista il 6° corpo d’armata.
L’imperatore russo Alessandro aveva appena rispedito al mittente l’ennesimo tentativo di Napoleone di conservare il trono dopo una eventuale resa. Tutt’altro che abbattuto dagli eventi bellici dunque Bonaparte confidava a Marmont di essere pronto ad affrontare un’altra battaglia. Poteva contare su 40 mila uomini e aveva ancora la possibilità di radunarne altri 20 mila e con questi 60 mila sfidare i 130 mila uomini che gli Alleati avevano attorno alla capitale francese. A Marmont sarebbe spettato comandare l’avanguardia. Ma tornato Napoleone a Fontainebleau, il duca di Ragusa in cuor suo cominciò a dubitare della riuscita di quest’ultima impresa. Da Parigi arrivavano notizie ancora più sconfortanti. Il Senato aveva votato la decadenza di Napoleone il 2 aprile e l’istituzione di un governo provvisorio guidato da Talleyrand. Quest’ultimo cercò immediatamente di mettersi in contatto con l’esercito per guadagnarsene il favore. Marmont avvicinato clandestinamente cedette. Con il suo corpo d’armata avrebbe abbandonato Napoleone per passare al servizio del governo provvisorio.
Il 4 aprile dopo aver contattato gli austriaci di Schwarzenberg che si impegnavano a far passare le sue truppe tra le loro linee si disponeva a partire per la Normandia. Ironia della sorte il 5 mattina venne raggiunto da Caulaincourt, Ney e Macdonald che gli annunciavano di essere riusciti a scongiurare una nuova battaglia e di aver convinto Napoleone ad abdicare in favore del figlio. Si stavano recando a Parigi per comunicarlo agli Alleati. Marmont si rese conto che il suo tradimento sarebbe potuto essere scongiurato e si unì a loro. Mentre a Parigi si cercava ancora di convincere russi, austriaci e prussiani ad accettare le condizioni dell’abdicazione, un aiutante di campo di Napoleone raggiungeva il 6° corpo d’armata ancora fermo ad Essonnes, rimasto sotto la responsabilità del generale Souham. Quest’ultimo crederà che il complotto ordito alle spalle di Napoleone fosse stato scoperto e che la richiesta dell’imperatore di marciare verso Fontainebleau non foss’altro che un pretesto per catturare e punire i responsabili. Per questo decise non solo di non ottemperare agli ordini ricevuti da Napoleone ma anche di marciare verso Versailles per mettersi alle dipendenze del governo provvisorio. In realtà Napoleone non aveva affatto idea che il comando del 6° corpo avesse tramato con il nemico e stava richiamando le truppe solo perché, nel caso in cui la trattativa fosse fallita, voleva continuare a combattere.
È probabilmente uno dei momenti più drammatici di quella campagna. Se gli ufficiali del 6° corpo erano praticamente quasi tutti d’accordo, i militari di truppa però nulla sapevano delle intenzioni dei loro superiori. Quando, durante la marcia si resero conto che la loro non era una manovra per attaccare il nemico ma per riunirsi ad esso, scoppiò una vera e propria rivolta e gli ufficiali furono costretti a rifugiarsi indegnamente tra le linee degli austriaci per sfuggire alla collera dei propri uomini.
L’orgoglio del soldato francese era ferito. I soldati volevano continuare a combattere ma si trovavano di fatto circondati a Versailles ed il loro comandante li raggiunse infine per trovare con loro un accomodamento. Dopo ore di trattative li convinse a mettersi al servizio del governo provvisorio. Marmont passerà alla storia come un traditore e da quel momento “ragusare” sarà l’espressione francese per indicare il tradimento. Di fatto la notizia fu un vero e proprio colpo al cuore per Napoleone a Fontainebleau.
L’altra stilettata al cuore dell’imperatore arrivò da uno dei suoi uomini più fidati, Louis Alexandre Berthier, primo maresciallo dell’impero, principe di Wagram, Neuchâtel e Valangin, nonché indispensabile capo di Stato Maggiore in tutte le più importanti campagne militari di Napoleone. Per la verità Berthier, come Caulaincourt era stato uno di coloro che avevano disapprovato la scelta di Napoleone di impegnarsi nella campagna di Russia, ma era comunque rimasto al suo fianco fino alla campagna di Francia del 1814. Quando gli Alleati erano oramai alle porte di Parigi, col pretesto di dover recuperare dei documenti importanti nella capitale chiese congedo all’imperatore assicurando che sarebbe tornato a Fontainebleau quanto prima. In realtà Berthier non rivedrà mai più Napoleone, quel viaggio a Parigi si rivelerà essere il tentativo di allontanarsi dal monarca ormai sconfitto. Fu invece tra i primi a recare i suoi omaggi a Luigi XVIII e per questo dal Borbone venne nominato Pari di Francia.
Berthier era senz’altro uno degli uomini più vicini a Napoleone, viaggiava sempre con lui in carrozza, ed era pronto ad eseguire metodicamente tutte le sue disposizioni. Lo stesso Bonaparte lo considerava di poco carattere ma imprescindibile, come risulta dal Memoriale di Sant’Elena di Las Cases, non mostrando mai rancore nei suoi confronti.
Dopo aver abbandonato Bonaparte e fatto atto di sottomissione a Luigi XVIII si ritirò nei suoi possedimenti di Bamberga in Baviera. Lì dovette ricevere la notizia della fuga di Napoleone dall’Elba, ma rimase ritirato mentre l’imperatore preparava la campagna che lo avrebbe condotto a Waterloo. Il tradimento a quel punto dovette pesare molto però sulle spalle di quel vecchio maresciallo dell’impero che il 1° giugno 1815 all’età di 62 anni, precipitò da una finestra del suo castello rimanendo ucciso. Per alcuni fu fatto suicidare per impedire che si riunisse a Bonaparte, per altri fu semplicemente il peso della vergogna per aver abbandonato così miseramente un anno prima quell’uomo che gli aveva concesso immensi onori a schiacciare la sua volontà di vivere e spingerlo al suicidio.
In quella notte del 12 aprile 1814 però Napoleone che praticamente si era dato la morte non poteva certo immaginare la sorte che il destino avrebbe riservato a lui o a chi lo aveva così mestamente abbandonato. Benché ormai fortemente debilitato e affetto da continue convulsioni a causa del veleno ingerito non perse la sua proverbiale lucidità, e fece chiamare immediatamente Caulaincourt ed il suo medico Yvan per dare loro le ultime disposizioni.
Nel frattempo Wairy, sempre al suo capezzale, tra le lacrime lo pregava di ingerire qualcosa che alleviasse i dolori, cosa che egli rifiutò fermamente. Appena Yvan e Caulaincourt fecero il loro ingresso nella stanza Napoleone con un debole gesto della mano invitò quest’ultimo ad avvicinarsi. «Caulaincourt – gli disse – vi raccomando mia moglie e mio figlio. Serviteli come avete servito me. Non mi resta molto da vivere!…». Mentre Wairy cercava di spiegargli la situazione accennando al veleno, interrotto dai singhiozzi e dalle convulsioni di Bonaparte morente, con un semplice sguardo e attraverso le parole dell’imperatore il duca di Vicenza si rese subito conto di quanto la cosa fosse grave. Nel frattempo prima ancora che Wairy spiegasse quello che stava succedendo, Yvan senza esitare, chiese se poteva sapere la quantità di veleno ingerito, facendo capire al valletto che il medico doveva già conoscere il contenuto del sacchetto sul pavimento. I tre riuniti al capezzale di Napoleone insistettero per fargli bere una tazza di tè riuscendo dopo vari tentativi a fargli ingerire il liquido caldo.
Napoleone aveva conservato quel veleno per anni, attaccato al collo in quel prezioso sacchetto di pelle, e con ogni probabilità il tempo aveva neutralizzato parte della sua efficacia. Con somma gioia dei suoi uomini gli spasmi dell’imperatore lentamente si calmarono ed egli si assopì. Al risveglio gli effetti del veleno sembravano svaniti.
Aprendo gli occhi Napoleone trovò ancora accanto al suo letto il fido Wairy, ma non pronunciò nemmeno una parola, nulla su quello che aveva tentato di fare quella notte.
Il destino non aveva voluto la morte dell’imperatore quel giorno. Napoleone avrebbe ancora tentato di scuotere l’Europa un anno più tardi fino alla fatale ora di Waterloo. Sarebbe seguita la mesta prigionia a Sant’Elena. No, Napoleone non perse la vita da suicida, ma si consumò prigioniero di quelle dinastie che aveva tentato di scalzare dai troni del vecchio continente.
Autore articolo: Giuseppe de Simone, laureato in Scienze Politici indirizzo storico, presso la Sapienza – Università di Roma, con una tesi in Storia Militare su “L’esercito francese e la Guerra d’Algeria”, è studioso di storia del Mezzogiorno d’Italia
Bibliografia: Louis-Constant Wairy, Mémoires de Constant premier valet de chambre de l’empereur sur la vie privée de Napoleon sa famille et sa cour, Chez Ladvocat, Libraire de S. A. R. le Duc de Chartres, Paris, 1830 ; Las Cases (De) Emmanuel, Memoriale di Sant’Elena, Prima versione integrale con note di G. E. De Castro, Francesco Pagnoni Editore, s.d. (1850 ca.); Rapetti, La défection de Marmont en 1814, Poulette-Malassis et de Broise libraires-editeurs, Paris, 1858.