Il sottoproletariato di Napoli
Nel 1972, sulle pagine del Corriere della Sera, il giornalista Giuliano Zincone abbozzava una mesta rappresentazione del sottoproletariato di Napoli. Ne leggiamo alcuni stralci.
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Il “Pallonetto” era un quartiere di pescatori, adesso è soltanto un ritrovo di contrabbandieri di sigarette. Seduti nel rigagnolo grigio che percorre la discesa, due bambini giocano a riempire un sacchetto di plastica con l’acqua sporca e le foglie marce d’insalata che si mescolano sulla via. Più avanti, quattro ragazzine fanno il girotondo cantando una canzone televisiva di Ombretta Colli. Il colore, l’allegria letteraria e cinematografica sono spariti da questo rione, come da tutti i quartieri centrali di Napoli, dove s’affollano trecentomila abitanti, la più forte concentrazione sottoproletaria del mondo occidentale. I “bassi” di Montecalvario sono tutti uguali: una stanza buia che fa da deposito, laboratorio, negozio, abitazione, una porta-finestra che dà sul vicolo, una catasta di brande piegate.
Le tracce dell’antica fantasia sono rare e sbiadite. Chi ha guadagnato col contrabbando riempie il “basso” di specchiere e comò lucidi, immani, fodera le mura fatiscenti con tappezzerie a righe stonate. C’è l’insegna pomposa di un barbiere, “Acconciatore maschile Ciro”, qualche negozio dall’aria ancora paesana, decine di bambine professionalmente abbigliate e truccate da femmine fatali. Ma il colore dominante è quello dei banchetti di sigarette, del commercio abusivo che si avvia ad assorbire i “mille mestieri pittoreschi” della tradizione popolare napoletana.
…Sparite, col decadere dell’artigianato e dei servizi ad personam, le tradizionali fonti di reddito e di integrazione sociale, il sottoproletariato ha spostato l’area dei propri servizi al di là della barriera della legge, in una posizione ancora più subalterna e degradata di quanto non lo fosse al tempo in cui borghesi e miserabili vivevano a stretto contatto, utili gli uni agli altri. Lo sfruttamento rimane, ma è più grave: accanto a quelli che supplicano per un posto al cantiere o in comune si moltiplicano i contrabbandieri, le prostitute giovanissime, gli abusivi d’ogni ramo: gente che continua a offrire “servizi” a chi può comprarseli, ma in condizioni sempre più precarie. Gran parte dei sottoproletari napoletani sopravvive, in pratica, soltanto perché la società, con i suoi divieti, lascia larghi margini alla trasgressione. E perché la legge è costretta alla tolleranza.
…I bambini di Napoli, gli “scugnizzi” tanto cari agli amanti del pittoresco, sono le prime vittime della città assassina. La mortalità infantile, in Campania, offre immagini da epidemia: su cento bambini, sei muoiono entro il primo anno di vita. Gli altri devono crescere in quartieri come Soccavo vecchia, dove l’indice di affollamento è di quattro abitanti per vano, o nei “bassi” di Montecalvario, dove si ammucchiano fino a quindici persone in una stanza… Per la scuola non c’è tempo: su cinquantamila iscritti alle elementari, quattordicimila non raggiungono la licenza. Ma questa è la media cittadina: nei quartieri poveri le cifre sono agghiaccianti. Al rione “Amicizia”, per esempio, su cento bambini due non frequentano mai la scuola, quarantaquattro si ritirarono prima di aver ottenuto la licenza elementare, trentuno conseguono la licenza e vanno a lavorare. Solo ventitré iniziano la scuola media dell’obbligo.
Gli “evasori”, spesso indispensabili al sostentamento della famiglia, intraprendono la loro carriera nei vicoli dei “quartieri spagnoli”, nei bari, nei cantieri fuorilegge, nei mercati di Forcella e della Duchesca…
A Forcella abbiamo intervistato un gruppo di giovani contrabbandieri e truffatori. La storia di uno di loro ci sembra esemplare; il padre faceva bauli in una bottega artigiana, rimase senza occupazione quando la richiesta dei suoi manufatti incominciò a decrescere. Allora anche il figlio si mise a lavorare, tentò diverse strade, garzone, ambulante, apprendista in una piccola tipografia. Ma il lavoro non durava, e il ragazzo aveva sempre sotto gli occhi il fallimento del padre. “Non mi andava di fare quella vita, di arrivare a cinquant’anni con una paga miserabile, e mai sicura. Così mi sono messo con qualche amico e ho incominciato a spacciare le sigarette, poi a truffare. Faccio finta di voler venere un televisore a basso prezzo, ma poi scambio il pacco e al cliente consegno qualche chilo di pietre incartate”. Con trucchi di questo tipo riesce a guadagnare circa trentamila lire al mese. “Ma smetterei subito – se qualcuno mi offrisse un lavoro vero, una paga giusta”.
…Le vere tragedie della segregazione e dell’abbandono esplodono nei quartieri periferici come Secondigliano, come il ione Traiano. Quest’ultimo, in particolare, ha le umilianti caratteristiche di un ghetto per diseredati. Il quartiere giace su un’area adibita a deposito di rifiuti. Il terreno è instabile, una scuola è sprofondata prima della inaugurazione, molte strade sono spaccate, interrotte per crepe e crolli. Valloni pieni di immondizia costeggiano l’abitato, i ragazzi giocano sull’orlo di questi fossi infetti e pericolosi.
Al rione Traiano, la cui costruzione fu iniziata nel 1959, vivono circa sessantamila persone, in un numero di vani progettato per ventiseimila. Gran parte dei palazzi sono già in condizioni penose, sbrecciati e decaduti, costruiti con materiali scadenti, gli intonaci scrostati, le scale malsicure. L’illuminazione pubblica non funziona, una palazzina è priva di finestre. Sulle strade, di tanto in tanto si scorge una baracca di legno e lamiera, ove si vendono le solite sigarette, o mobili usati e miserevoli. E’ gente che tenta ti riprodurre in questa solitudine i piccoli commerci che esercitava nel vicolo d’origine. Ma i clienti non ci sono, i poveri sono troppi, troppo lontani tra loro. Non si vende niente, non ci si “arrangia” più, e il lavoro, naturalmente, non si trova.
Autore foto: Angelo D’Ambra