Il sogno di Alessandro (Racconto breve)

Si è solito considerare il divo Alessandro come uno degli eroi cosmici della Storia, capaci di scuotere il mondo con la potenza di un epocale sisma (è proprio il caso di dirlo). Ma qualcuno si è mai chiesto cosa frullasse nella mente del giovane sovrano, l’ansiosa notte prima della partenza per la Persia?

***

Ier sera il dio è stato generoso con me, non so per quali meriti nascosti; affermo ciò con potenza poiché per la primissima volta da molto tempo questa notte ho sognato, e non di un incubo che dà affanni. Mi ero appena chiuso fra il talamo e le pelli, raggomitolandomi a dovere per fronteggiare il muro e non rischiare di sfiorare con gli occhi o la mente il pensiero del destino che mi fronteggerà domani, nel giorno della mia partenza per l’impresa persiana, quando, senza sudate incitazioni, la luce nei mie occhi si è affievolita e sono stato rapito ai vivi. Il sequestro operato da Morfeo è però stato gradito, al contrario dell’uso, e, ciò che più mi stupisce, contraccambiato da un sincero piacere: mi sono ritrovato in un’oasi di acque perfettamente circolari, al perfetto centro delle quali v’ero io, dolcemente deposto su un giaciglio di frutti prelibati e boccioli in festa, che m’inondavano le narici di un amabile profumo. Lungi dal concludersi con uno scatto repentino, l’idillio è stato notevolmente ampliato dal tocco che accusavano i miei capelli. In poco tempo ho colto l’impronta di una soffice mano di donna, che mi scompigliava la chioma con onde tanto gentili quanto accurate. Solo allora ho capito che il profumo che riconducevo ai frutti era in realtà il suo ambrato, e solo allora mi sopraggiunse il pensiero che quelle corolle che avevo immaginato rappresentavano invero il fiore della sua verginità; solo allora compresi che il mio giaciglio era davvero formato dalle sue candide gambe, e solo allora mi resi conto, cosa più straordinaria che mai, di avere il pieno possesso delle mie facoltà anche in quel meraviglioso sogno. Aprii gli occhi, che vennero subito invasi da una pura luce diffusa, emanata da una stella che caldeggiava nel nucleo sfolgorante del mio campo visivo; e così potei vedere che, oltre l’acqua, ero circondato da una spessa e verdeggiante muraglia di cedri immortali, dolci datteri, e felice erba, capigliatura della terra. Rivolsi allora lo sguardo alla mia ignota compagna, che era nel frattempo rimasta muta; e tale disposizione venne, con grande qualità stoica, da lei mantenuta, anche quando mi accorsi che stava serbando il riso nel cuore. Con un moto timido, feci per schiudere le labbra, ma lei fu più lesta: tacitandomi con l’indice, scosse la testa con lentezza per tre volte di fila. Poi, quando fu sicura che avevo capito (a conferma, volle che manifestassi il mio assenso), estrasse dal suo abito color dell’avorio una mandorla; si assicurò che la vedessi, mostrandomela campeggiare al centro del suo palmo bianco, e in seguito chiuse la mano a pugno, negandomela agli occhi. Io dovevo allora avere lo sguardo più beota del mondo, poiché la sua reazione fu quantomai inaspettata: rise, e a quel suono potevo sentire il mio animo, che danzava di gioia al solo sentirla, dimenarsi furiosamente all’interno di quest’involucro che i folli chiamano corpo, figurandosi una metafora per indicare quella che è, a conti fatti, la prigione dello spirito.
Quando infine si concluse quel celeste suono, mi sembrò che il mondo si rabbuiasse un poco. Ella non se ne curò, e spalancò ancora una volta il suo palmo, graziandomi nuovamente con quella buona visione; e su quel bel campo che invitava al bacio, pareva ai miei sensi inebriati dalla fanciulla, incastonata una gemma marrone. Tale infatti mi appariva a primo sguardo la mandorla, di cui, per il troppo sfolgorare della mia compagna, mi ero ormai dimenticato. La guardai in volto, incerto, e lei ricambiò con occhi decisi, quasi crudeli, senza spiccicare parola. Quaranta secondi che mi sembrarono anni, difettosi però di quaglia e manna, furono subiti da entrambi prima che mi risolvessi a cogliere quello stranissimo frutto. Con cura, rompetti il guscio e infilai la mandorla in bocca, masticando quella prole che sapeva di conoscenza ed evocava alla mente la candida immagine della verità. Lei sorrise di una mezzaluna ampia, ed il suo calore si trasmise subito al suo corpo; e fu in quel momento, penetrato dal suo sostrato, che mi amalgamai nella forma alla sua prima sostanza. Accecato dal momento, non me n’ero reso conto, ma prima non potevo che scorgere i vaghi confini della sua presenza ed il suo amorevole tocco, scrutandola in quelle pupille infisse come chiodi sul suo volto, vasti e profondi come il mare di smeraldo di Lesbo. L’apparizione, quindi, si delineò a guisa di ninfa dei boschi, e rivolgendomi la parola disse: “Hai accettato il frutto! Dal giorno in cui ne hai mangiato, i tuoi occhi saranno aperti e sarai come un dio, conoscendo il bene e il male!” Allora i mie occhi si aprirono del tutto, e s’accorsero ch’ero nudo; coperto di vergogna dalle testa ai piedi fuggii via, gettandomi nel fiume. “Dove vai?!” gridò spaurita la splendida ninfa. Ma era troppo tardi, poiché l’oasi per me si era già tinta di rosso e blu. D’un tratto, mi sentii mozzare il fiato e affogai in quelle torbide acque, svegliandomi fra coperte razziate dalla lotta che avevo affrontato per tenermi a galla, e madide del mio sudore, quasi fosse ancora quella pura acqua di fiume ond’ero annegato. Dove andavo? Prima del giornaliero supplizio, desidero rispondere alla ninfa: per la prima volta ho udito la tua fine voce nel meraviglioso giardino di piante eterne, e ho avuto paura, perché non ero pronto al sogno, e mi sono nascosto.

 

Autore: Feder

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