Il rituale dei Feziali per la guerra di Roma
Un minuzioso rituale, diretto dal collegio sacerdotale dei Feziali, proclamava la guerra nei giorni dell’antica Roma. Era il frutto di una concezione del religioso incentrata su un senso di equilibrio che portava a improntare ogni atto nell’ambito del lecito – il fas – con scrupolosi gesti rituali che avrebbero assicurato protezione o almeno la non ostilità delle divinità.
Tito Livio precisa in Ab Urbe Condita I, 32, 6-14, il procedimento di dichiarazione di guerra stabilito da Anco Marzio: «L’ambasciatore, dopo che è arrivato sul confine del territorio del popolo a cui si chiede un risarcimento, col capo velato di una benda di lana dice: “Ascolta, Giove, ascoltate terre di … – e fa menzione del popolo cui queste appartengono – e ascolti la divina giustizia: io sono un inviato ufficiale del popolo romano, vengo come ambasciatore secondo il diritto umano e quello divino; si presti fede dunque alle mie parole”. Espone così le sue richieste e chiama Giove a far da testimone: “Se pretendo la consegna di quegli uomini e di quei beni contro il diritto, non lasciare che io ritorni nella patria mia”. Questo dice nel varcare il confine, questo al primo uomo che incontra riferisce, questo quando entra nella città, quando mette piede nel Foro, ed ogni volta cambia solo poche parole alla formula ufficiale. Se le persone richiese non gli vengono consegnate, passati trentatré giorni, così come stabilito dal rito, intima la guerra: “Ascolta Giove e tu Giano Quirino e voi tutti dei del cielo e voi della terra, e voi degli inferi, ascoltatemi: io chiamo voi a testimoni che quel popolo … – ne fa qui il nome – agisce contro giustizia e non paga la riparazione. Ma su questo consulteremo in patria gli anziani che decideranno come far valere il nostro diritto. Quindi ritorna a Roma per chiedere istruzioni. Subito il re all’incirca con queste parole chiedeva ai senatori un parere: “A proposito delle cose, delle controversie, delle questioni trattate dal Padre Patrato del popolo romano con il Padre Patrato dei Prischi Latini e con i Prischi Latini, visto che non hanno restituito né riparato Nè dato risarcimento per le cose che avrebbero dovuto restituire, riparare e risarcire – diceva egli al primo a cui domandava parere – che cosa decidi?”. Quello rispondeva: “Decido che si debbono esigere con una guerra giusta e santa, su questo son d’accordo e questo approvo”. Poi veniva chiesto il parere a tutti gli altri e quando la maggioranza dei presenti era dello stesso parere, la guerra era decisa. Era prassi che il Feziale portasse al confine della terra nemica un’asta di ferro, con la punta bruciata tinta di sangue e che, alla presenza di almeno tre giovani, dicesse: “Poiché i popoli dei Prischi Latini e i Prischi Latini hanno agito ostilmente contro il popolo romano dei Quiriti poiché il popolo romano dei Quiriti ha ordinato che ci fosse guerra con i Prischi Latini e il Senato del popolo romano dei Quiriti ha deciso e deliberato che ci fosse guerra con i Prischi Latini, per questo io con il popolo romano dichiaro e muovo guerra ai popoli dei Prischi Latini e ai Prischi Latini”. Dopo aver pronunciato questa formula, scagliava l’asta nel loro territorio. In questo modo veniva richiesta soddisfazione e intimata guerra ai Latini, e i posteri accolsero questo rituale».
Il rituale cita il Padre Patrato ovvero il capo della delegazione, conoscitore del fes e dello jus, che conduceva le trattative coi nemici, che in questo caso sono i Prischi Latini, le antiche popolazioni laziali. Ad una attenta osservazione si può notare come l’azione fosse collocata in uno spazio evidentemente regionale, in cui Roma era ancora un piccolo villaggio. Quando i confini dello Stato si ampliarono divenne certamente difficile mandare ogni volta il Feziale e fu necessario ideare uno stratagemma, ovvero catturare un soldato nemico e costringerlo ad acquistare un pezzo di terra nella zona del Circo Flaminio in modo da avere a disposizione un territorio di proprietà nemica in modo da compiere il suddetto rito.
Successivamente ci si accontentò di una cerimonia simbolica al tempo di Bellona.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
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