Il Re Galantuomo
Il Re Galantuomo, Vittorio Emanuele II, sin da bambino scoprì la passione politica che animava i liberali piemontesi. Essi facevano di suo padre il centro delle loro aspirazioni e lo spingevano a superare ogni titubanza schierandosi contro l’Austria e concedendo ai suoi popoli il regime rappresentativo.
Dopo alcuni anni a Firenze tornò a Torino e qui fu educato da Cesare Saluzzo, grande studioso di lettere ed arte militare. Si scoprì presto il suo carattere irruento, era annoiato dalle etichette, dalla musica, dagli studi di diritto e letteratura, ma attratto da quelli studi militari. Lo ammise anni dopo parlando con Garibaldi: “Finalmente sono nel mio elemento naturale! Io non so far altro mestiere che quello del soldato. Mi annoiano la diplomazia e le sofisticherie degli avvocati; preferisco i cannoni ai protocolli, e sono persuaso che i cannoni e non le note potranno risolvere la questione italiana”.
In effetti, quando vide suo padre agitare il tricolore che fino a poco prima era stato la bandiera dei ribelli, già si sentì travolgere dai rovesci delle Guerre d’Indipendenza. A Goito, ferito, rifiutò d’essere medicato. Rimontò sulla sella e rassicurò i soldati; si ripeté a Palestro – stavolta da re – quando si gettò con gli zuavi contro i cannoni austriaci di Szabò e fu proclamato da quel reggimento Caporale d’Onore. Era un re furioso, guerriero, indocile e presto sarebbe diventato “galantuomo”.
Come si sa, le sorti italiane precipitarono a Novara e Carlo Alberto pronunciò le fatidiche parole davanti al Duca di Savoia ed al Duca di Genova: “Ho cessato di regnare. Da questo momento è vostro re Vittorio”. Così Vittorio Emanuele II salì al trono in un momento delicatissimo, proprio quando i suoi stati erano circondati da pericoli e minacce, divisi ed in disordine. Gli austriaci s’apprestarono a tar da questa situazione tutti i vantaggi, ma il nuovo re li colse d’anticipo. Andò egli stesso a trattare col maresciallo Radetzky.
Quando il vinto re, subito dopo Novara, rifiutò a Radetzky il vincitore di abolire lo Statuto Albertino, scrisse la sua gloria destinata ad essere celebrata dai liberali di tutta Italia ed a garantirgli un ampio sostegno nel partito unitario. Per non aver abrogato lo Statuto Albertino gli venne dato l’appellativo con cui è ricordato tutt’oggi di Re Galantuomo.
I due si incontrarono a Vignale e quando il generale austriaco suggerì d’abolire lo Statuto, Vittorio Emanuele gli rispose: “Piuttosto che toccar lo Statuto combatterò finché mi resta un soldato e una spada”. Radetzky, sorpreso, ratificò l’armistizio modificato esclamando: “Quest’uomo è un nobile uomo, un galantuomo; egli ci darà molto da fare” (L’Illustrazione Italiana, 20 gennaio 1878).
A distanza di anni D’Azeglio gli disse: “Sono stati così pochi i re galantuomini che sarebbe bello cominciarne la serie”. Vittorio Emanuele sorrise: “Ho da far il re galantuomo?”. “Vostra Maestà ha giurato fede allo Statuto, ha pensato all’Italia e non solo al Piemonte. Continuiamo di questo passo a tener per certo che a questo mondo tanto un re quanto un individuo oscuro non hanno che una sola parola, e che a quella si deve stare”, rispose D’Azeglio. “Ebbene, il mestiere mi par facile”, riprese il re ed il ministro confermò il suo parere: “E il Re Galantuomo l’abbiamo”.
Di fatti, contro ogni ricostruzione storica, non solo restò lo statuto, ma restò pure l’aspirazione unitaria del casato.
Mentre Carlo Alberto, partiva per la via del volontario esilio, Vittorio Emanuele accorreva nella capitale per assumere il comando in una situazione delicatissima in cui Genova insorgeva ed un sentimento generale di sfiducia ricopriva il trono che cedeva Alessandria alla occupazione austriaca.
Tre vie s’aprivano davanti a lui: o la restaurazione o mantener le franchigie costituzionali, ma rinserrarsi in una politica regionale o continuare la politica italiana sconfitta a Novara. Fu questa la sua scelta e, se nel 1849 Vittorio Emanuele II era entrato nella capitale accolto freddamente, nel 1853, senza scorta, sfilava a cavallo nella città in festa per l’annuale commemorazione dello Statuto in una Italia in cui ogni principe li aveva cancellati.
S’apprestò a stringere l’alleanza del Piemonte con le potenze occidentali per la Guerra di Oriente e la spedizione di Crimea, strinse legami matrimoniali coi nuovi Bonaparte concedendo sua figlia al cugino di Napoleone III. La politica di Vittorio Emanuele diventò audacemente unitaria ed all’apprestarsi del 1859 in Piemonte non c’erano più repubblicani.
La guerra fu dura, solo l’allagamento della pianura tenne lontani gli austriaci da Torino, ma arrivarono grandi vittorie come a Palestro, la sconfitta tenacemente guerreggiata di Solferino e di nuovo una vittoria, quella di San Martino. Ovunque Vittorio Emanuele II fu presente.
Le annessioni dell’Italia centrale coi plebisciti, diventarono un fatto compiuto e Vittorio Emanuele – il Re Galantuomo che credeva nei cannoni e non nella diplomazia – s’affrettava così a divenire re d’Italia. Era lo stesso furioso, guerriero, indocile che a vent’anni scriveva: “Qui vado a caccia a più non posso, e… nell’acqua fin quasi al di sopra della testa (è il 2 di gennaio del 1840) e nelle spine; un giorno mi lacero il vestito e l’altro giorno el gambe, l’altro giorno ci perdo quasi la testa, perché se non si fa così non vi è divertimento. Ho comprato cavalli ancor più furiosissimi; e l’altro giorno mi son rovesciato io e il cavallo sotto il portone in una bellissima maniera, ma vi è poco male!”.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
A Solferino vinsero i francesi, non fu sconfitto Vittorio Emanuele II.