Il mondo politico italiano nel primo dopoguerra

Il primo dopoguerra mostrò in tutta Europa la crisi dei partiti liberali. Le speranze manifestate da Antonio Salandra, nel discorso di Milano del 5 dicembre 1915, erano andate deluse. Non seppe raccogliere i frutti dell’interventismo.

La guerra non aveva portato forze fresche al fronte liberale italiano perchè della vittoria s’impadronirono il nazionalismo ed il combattentismo, declinato da numerose associazioni. All’opinione pubblica il mondo dei liberali non appariva che logoro e stanco, piegato su posizioni conservatrici, privo della volontà di rinnovarsi. Nel 1922 lo stesso Salandra confessò: “Il partito comprese senza dubbio l’avvento al potere politico di nuovi strati sociali, ma non trovò modo d’assumerne la direzione… era quindi logico che gli sfuggisse, come gli è sfuggita, la direzione politica del paese alla quale lo designava un glorioso diritto storico, non certo un immutabile diritto divino”. Preoccupato per l’ordine, pronto al compromesso, ai blocchi, alla conciliazione pur di serbarsi al governo, il partito liberale si mostrò incline ad un’attitudine fiancheggiatrice e benevola neri riguardi del fascismo che percorreva la strada verso il potere. I liberali di sinistra, rappresentati da Giolitti, furono forse più duttili, ma la guerra aveva stravolto il mondo politico, introdotto nuove istanze e metodi di lotta, disciplinati dall’esperienza di trincea, completamente avulsi al loro fare.

Col notevole apporto degli arditi, crebbero le schiere del fascismo e quelle dei nazionalisti, devoti al trono, con la questione adriatica da lasciar echeggiare in ogni piazza. I secondi non amavano confondersi con le squadre in camicia nera, ma si capiva che vi sarebbero andati d’accordo. Nel frattempo, l’ala estrema del partito socialista, nel Congresso di Livorno del 1921, costituiva il Partito Comunista, denunciando l’atteggiamento dei socialisti di fronte alla guerra e abbracciando il bolscevismo. Lo scontro tra le due parti si accese tra D’Aragona e Graziadei, l’uno diceva che la condizione propizia per la conquista dello stato non era l’immiserimento del dopoguerra, l’altro replicava che la teoria dei granai pieni era bella comoda.

La novità della scena politica era il Partito Popolare, fondato nel gennaio 1919, spezzando le ultime reticenze alla partecipazione dei cattolici alla politica. Quando apparvero manifesti con lo scudo crociato dei comuni medioevali ed il motto Libertas, il successo era già assicurato. La creazione di Luigi Sturzo poteva contare su una base salda costituita dalle parrocchie, dall’Azione Cattolica, dalle leghe bianche. Così il partito accolse di tutto, da giovani cattolici liberali a vecchi conservatori come Crispolti, nazionalisti come Mattei Gentili, baroni feudali come De Ghislanzoni che, nella sua Rocca Susella, raccoglieva immancabilmente tutti i 107 voti dei 107 contadini delle sue terre.

Dalle elezioni del 1919, il parlamento uscì composto da 156 socialisti e 101 popolari. Governò Nitti, ma i liberali non tardarono a riaprire la crisi tirando fuori ancora il nome di Giovanni Giolitti. L’esplosione delle occupazioni di fabbriche della Settimana Rossa e delle violenze fasciste, manifestò la debolezza del potere centrale. Mutaron poco le elezioni del maggio del 1921, Giolitti lasciò il posto a Bonomi, questi a Luigi Facta in una continua manifestazione di carenza dell’autorità governativa che aveva già Mussolini come vincitore.

L’instabilità politica espose anche la Corona al caos. In tutto il continente la guerra aveva già spazzato via dai loro troni Hohenzollern e Asburgo, i Savoia, pur vittoriosi, ora però non riuscivano a trovare una soluzione organica delle lotte partitiche nazionali. Quando Facta si recò dal re per la firma del decreto di stato d’assedio, in occasione della marcia su Roma, la notte tra il 27 ed il 28 ottobre, Vittorio Emanuele III accondiscese al decreto. Facta tornò al Viminale per redigerne il testo, ma la mattina seguente, quando alle otto si ripresentò al sovrano, questi riteneva non più oportuno apporre la propria firma. Il re fece telegrafare a Mussolini che si trovava a Milano di recarsi immediatamente a Roma per formare il nuovo governo.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: C. Morandi, I partiti politici nella storia d’Italia

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