Il liberalismo inglese
In poche magistrali pagine, tratte da Storia del liberalismo europeo, il filosofo Guido De Ruggiero traccia l’evoluzione economica, politica e sociale dell’Inghilterra, individuando gli elementi essenziali del liberalismo inglese.
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Anche qui il potere monarchico riesce ad affermarsi con la vittoria di una famiglia aristocratica sulle altre, ed a compiere l’unificazione politica del regno. Ma le ragioni vitali di protezione e di difesa dai nemici esterni, che sul continente avevano fortificato lo stato a spese della libertà degli individui, non hanno la stessa forza presso un popolo isolano, naturalmente protetto dal mare. Manca qui il principale strumento di oppressione, la forza armata: perché, da una parte, la flotta che ne costituisce la principale difesa, ha una struttura individualistica e un’azione, per così dire, periferica, che la rendono fautrice di libertà, più che di dispotismo; e dall’altra parte, l’esercito, quasi costantemente impegnato nelle guerre continentali, è con ciò stesso sottratto ad ogni opera di assoggettamento in patria.
Per conseguenza, l’assolutismo, che pur riesce temporaneamente a stabilirsi e a raggiungere il suo apogeo al tempo dei Tudor, trova di fronte a sé dei centri di resistenza assai forti che, coalizzandosi, finiscono col debellarlo.
Ci colpisce innanzi tutto la fondamentale differenza tra l’aristocrazia inglese e quella francese. La prima trae anch’essa la sua forza dalla proprietà fondiaria e dalle funzioni pubbliche che vi sono connesse: ma il suo attaccamento alla terra è di gran lunga maggiore, e più vigile e assidua è la cura con cui essa adempie i compiti che vi sono inerenti. Tra la grande e la piccola aristocrazia si compie di buon’ora una efficace divisione del lavoro politico e amministrativo: l’una ha la sua naturale rappresentanza nella camera dei lords, l’altra, che né è l’immediata propaggine, alimenta quella dei comuni e, cioè che più conta, forma il saldo nucleo dell’amministrazione e della giustizia locale. Infatti al nome della gentry, della piccola e media nobiltà campagnuola, è legato il caratteristico self-governament inglese, il più valido baluardo contro ogni ingerenza dell’amministrazione centrale.
Si aggiunga, che mentre la nobiltà francese forma una casta chiusa, quella inglese non ha un limite definito che la separi dalle rimanenti classi del popolo: ciò che, se on diminuisce la distanza, la rende meno sensibile e odiosa. Inoltre la qualità nobiliare non tocca che ai primogeniti; i cadetti si confondono con la borghesia e partecipano alle sue industrie e ai suoi traffici, alimentando, così, le fonti della ricchezza familiare.
E, a differenza della Francia, dove il pover paga per il ricco, qui il ricco paga per il povero: non soltanto i proprietari non godono immunità tributarie, ma provvedono al sostentamento degli abitanti poveri e disoccupati della propria parrocchia. La poor tax, che nel tempo della rivoluzione industriale sarà tanto aspramente combattuta dagli economisti, rappresenta invece, nel periodo dell’angusta economia feudale, una misura di grande accorgimento politico, perché giova ad accrescere il prestigio delle classi ricche, ed insieme a prevenire le sommosse della fame, che altrove hanno, coi loro scoppi impetuosi e distruttori, durevolmente aggravato il disagio che le suscitava.
I secoli XVII e XVIII, che per l’aristocrazia francese segnano l’età del decadimento e della rovina economica, sono invece l’età del più rigoglioso sviluppo per l’aristocrazia di Oltremanica. Essa accresce notevolmente la sua proprietà fondiaria, giovandosi della sua potenza politica per incamerare, mediante leggi, la maggior parte delle terre incolte e indivise, residuo delle proprietà comunali del Medioevo. Gli enclosure bills, suggeriti dall’opportunità economica di porre in valore dei terreni che l’eccessivo frazionamento dei diritti e degli usi delle comunità rendeva infecondi, si risolvono in un esclusivo vantaggio dei grandi proprietari, in virtù della propria influenza preponderante che permette loro non solo di attribuirne a sé le porzioni più abbondanti, ma anche di riscattare quelle che toccavano in sorte ai piccoli coltivatori.
Le chiusure dei campi sono la misura più rivoluzionaria sperimentata, nel corso dei secoli, da questo ceto accortamente conservatore. Le conseguenze che ne derivano hanno un valore storico inestimabile. Per effetto di esse veniva gradualmente distrutta la classe dei coltivatori indipendenti, di quei Yeomen che – ricordano con accoramento gli storici inglesi – avevano formato le gloriose fanterie di Crécy e di Azincourt e avrebbero potuto formare, nei tempi moderni, un forte nucleo economico e politico, capace di controbilanciare e d’integrare le forze del nuovo industrialismo. Invece, gli avanzi di quel ceto, allontananti dalla loro terra e dispersi, dovevano formare essi stessi il proletariato dell’industria portando nelle fabbriche, insieme con uno spirito operoso e tenace, un’immensa nostalgia della terra, piena anch’essa di avvenire.
Questo esodo di coltivatori aveva la sua ragione precipua nel fatto che l’aristocrazia, dovunque estendeva i suoi domini, trovava più utile e redditizio sostituire alla piccola cerealicoltura i grandi pascoli e, magari, le grandi tenute di caccia, richiedenti un limitato impiego di mano d’opera. A che mai poteva servire la piccola cultura preesistente? A null’altro che a moltiplicare la popolazione, cioè la più utile delle produzioni, come si esprime un grande agricoltore del secolo XVIII. Una tale cultura di uomini aveva avuto il suo pregio nel periodo più arretrato del feudalismo, quando il feudo era principalmente un vivaio umano per allevare soldati: ma l’aristocrazia inglese s’era ormai molto evoluta, e, pur serbando intatte le forme feudali, per quel che le riuscivano vantaggiose, s’industria a riempirle con un contenuto utilitaristico e borghese. La grande proprietà diveniva, con lo sviluppo agrario del secolo XVIII, la forma più adatta all’introduzione della grande cultura del tipo industriale. E se anche i montoni divoravano gli uomini – come lamentava un contemporaneo – essi fornivano buona lana ai filatoi che nel frattempo s’andavano moltiplicando nel paese.
Avviene così che lo sviluppo agricolo, che sul continente non ha potuto effettuarsi se non in seguito a una rivoluzione, si opera invece in Inghilterra con un’insensibile evoluzione dell’antico regime fondiario: senza bisogno di spezzare nessuna delle grandi istituzioni dell’età feudale, la Gran Bretagna è, sul finire del secolo XVIII, per giudizio concorde dei competenti, all’avanguardia del progresso agricolo, ed è citata come modello, per questo riguardo, a tutte le nazioni continentali.
Contro quest’aristocrazia, così forte economicamente, così zelante nelle sue funzioni pubbliche e schiva delle attrazioni cortigianesche della capitale, si spuntano ben presto le armi dell’assolutismo monarchico. Per mezzo del parlamento, che è sua genuina espressione, essa difende dall’invadenza della corona i privilegi propri insieme con quelli di tutto il popolo; riesce a prendere il sopravvento al tempo degli Stuart e, dopo una breve parentesi rappresentata dal cesarismo di Cromwell, ripiglia il suo ascendente sulla monarchia restaurata, e lo accresce ancora e lo consacra con un esplicito riconoscimento dei suoi diritti, in seguito alla seconda rivoluzione, che portava al potere, in grazia della nazione, una dinastia straniera. La monarchia del 1689 è per l’appunto quel potere moderato, più apparente che reale, che era nei voti dei nobili lords, perché, sotto la veste decorosa di un governo misto, dove tutte le forze della nazione fossero proporzionalmente rappresentate, dissimulava la sostanza di un potere oligarchico.
Questo apparente equilibrio dei poteri ingannerà l’occhio sagace, ma avvezzo a visioni troppo razionalistiche, di un Montesquieu, che trarrà dall’esempio, in parte illusorio, dell’Inghilterra, l’idea di una divisione formale dei poteri e di un sistema di controforze che li bilancia reciprocamente: felix culpa, del resto /se pure è a parlare di colpa), perché in luogo di un modello storico, il Montesquieu offre ai potersi un modello ideale, adeguato alla chiarezza e alla distinzione razionalistica della nuova mentalità politica. Ma altri studiosi del secolo XVIII, da lui stesso incuriositi a studiare il modello inglese, non tardano a scoprirne la più vera essenza: la così detta monarchia mista non è che una repubblica aristocratica.
Ciò non toglie che questo governo abbia, pei suoi tempi, una fisionomia spiccatamente liberale. La libertà dell’individuo, specialmente la sicurezza personale e la proprietà, sono saldamente assicurate; l’amministrazione è decentrata e autonoma, i corpi giudiziari sono del tutto indipendenti dal governo centrale; le prerogative della corona sono ristrettissime, anzi il predominio del partito whig, in seguito alla rivoluzione del 1688, tende ad annullarle ed a concentrare nel parlamento la somma della potenza politica.
Che cosa poteva offrire di simile il continente? Perfino sul cadere del secolo XVIII, quando nell’ebbrezza rivoluzionaria gli uomini del continente si crederanno, e più si grideranno, liberi, due acuti osservatori inglesi, pur diversi per mentalità l’uno dall’altro, saranno concordi nel disilluderli: giudicando dalle esperienze del proprio paese, essi affermeranno che, senza un corpo aristocratico, non vi è libertà possibile, perché non vi è più barriera contro l’assolutismo. E la Francia dovrà imparare a proprie spese che tra il dispotismo monarchico e quello democratico non v’è molta differenza, almeno quanto alla servitù.
Ma, tra la libertà aristocratica e la libertà democratica, la partita non si chiude col secolo XVIII. Tra l’aristocrazia e la corona s’inserisce l’azione di un terzo termine, la borghesia, che complica il gioco e dà un imprevedibile sviluppo alle antitesi originarie. In Francia, alleata della corona nella lotta contro i privilegi feudali, la borghesia finisce col rivolgersi anche contro di questa e col porre in essere una specie di aristocrazia borghese, in cui saranno ravvisabili molti segni dell’antica feudalità. In Inghilterra, l’azione della borghesia è precisamente opposta: essa è legata alla nobiltà nella lotta contro la corona e nello sforzo per il consolidamento delle libertà tradizionali ed aristocratiche, profittando a sua volta, oltre che dei beni generali della sicurezza delle persone e degli averi, anche di una particolare protezione dei suoi commerci e delle sue industrie. Ma anch’essa finirà, nel secolo XIX, col volgersi contro l’antica alleata e col muovere all’attacco dei privilegi terrieri dell’aristocrazia.
Si dà in tal modo una curiosa reciprocità d’influssi tra il liberalismo inglese ed il liberalismo continentale, durante il secolo XIX, per cui l’uno riproduce le stesse fasi che l’altro ha già attraversato nel secolo precedente, e mentre il primo prende per modello la mentalità razionalistica e democratica del secondo, questo a sua volta s’ispira alle forme tradizionali e ai privilegi dell’altro. Il risultato finale sarà una compenetrazione reciproca, da cui risulterà un liberalismo veramente europeo.