Il Castello di Civitacampomarano ed il tradimento di Paolo di Sangro
Situato nell’entroterra molisano nel cuore della Valle del Biferno, il Castello di Civitacampomarano pare risalga a prima dell’anno mille.
Costruito dai longobardi, sicuramente grandi trasformazioni intervennero nel XIV secolo. Sappiamo che all’epoca di Carlo d’Angiò, Civitacampomarano fu dei Marchisio poi dei Del Balzo, tuttavia il castello assunse la forma turrita più tardi, sotto Roberto d’Angiò. Carlo III di Durazzo assegnò il feudo alla moglie Margherita che, dopo averlo tenuto per un decennio, lo cedette a Iacopo di Marzano. Lo stemma posto sul portale catalano del lato orientale del castello, invece, riconduce a Paolo di Sangro, già al servizio di Antonio Caldora, capitano dell’esercito angioino passato dalla parte di Alfonso d’Aragona durante lo scontro di Sessano: il suo cambio di campo fu determiante per le sorti della battaglia e gli valse il feudo.
La pianta quadrangolare della fortezza è forse l’aspetto che più richiama quello originario. Due imponenti torri si elevano su torrioni angolari di forma cilindrica con base a scarpa. Tra questi si erge una cortina muraria. La parte centrale è senza dubbio quella più caratteristica con un loggiato rinascimentale formato da sei archi a tutto sesto. La parte rivolta a Sud si affaccia sullo strapiombo, la parte esposta a Nord è segnata da una scalinata che conduce al portale trecentesco con lo stemma dei di Sangro.
Tra i capitani di ventura più importanti del quattrocento italiano, Paolo di Sangro era al soldo di Antonio Caldora, Duca di Bari e Carbonara e Marchese del Vasto, figlio del potentissimo condottiero Giacomo Caldora, schierato con Renato d’Angiò. Il suo valore è sicuramente macchiato dal tradimento alla battaglia di Sessano del 29 giugno del 1442.
La notte prima della battaglia, egli, al seguito del Caldora alla guida di cinquecento lance ed altrettanti cavallieri, fu contattato da un emissario di Alfonso che gli promise terre e privilegi se avesse combattuto sotto le sue insegne. Col calare della notte, il di Sangro si recò nell’accampamento nemico concludendo con Alfonso l’accordo e l’indomani, con i due eserciti a darsi battaglia e la sicura sconfitta aragonese che andava prospettandosi, apparve sotto le insegne aragonesi, capovolgendo le sorti della battaglia.
Il voltafaccia gli permise persino di far prigioniero Antonio Caldora per condurlo alla presenza di Alfonso d’Aragona che, in una cena al castello di Carpinone, gli mostrò clemenza addirittura concedendogli le contee di Monte Odorisio, Pacentro, Palena, Archi, Aversa, Valva (A. Di Costanzo, Historia del regno di Napoli).
Nel “Giornale dell’Istorie del Regno di Napoli quale si conserva per il Duca di Montelione”, i fatti sono così sintetizzati: “…alli 28 di Giugno 1442 venne il Conte Antonio sotto Sessano. Ma la notte avanti se ne fuggì da lui Paolo di Sangro, con una grossa banda di gente d’armi, e venne al Re Alfonso, e l’informò d’ogni cosa. Il Re uscito di notte ad ascoltare sotto Sessano, e sentendo questo pose una buona banda di gente dentro Sessano, che stettero a requesta, e venendo Antonio Caldora si appiccò il fatto d’armi, dove al primo incontro gli Aragonesi non potendo resistere all’impeto de’ Caldoreschi si poseno in isbatto; ma venendo il Marchese Ventimiglia con uno squadrone che era accosto ad un bosco la notte, furono messi in mezzo li Caldoreschi, ma con tutto questo facevano da Lione tanto loro, come li Sforzeschi; ed a quel di Antonio Caldora mostrò esperienza di Capitano espertissimo, e di valorosissimo soldato. Ma perchè parte delle genti sue lo tradì, e parte non volle combattere, e resistere a quelli che davano per fianchi, fu rotto, e fatto prigioniero”.
Da allora, lo stemma di Paolo di Sangro fu segnato da due gigli angioini capovolti come appare proprio sul portale del Castello di Civitacampomarano. E’ qui visibile un drago aragonese che sostiene lo scudo con le tre bande azzurre in campo oro dei di Sangro e regge tra gli artigli i due gigli rovesciati.
Scrive G.B. Masciotta in Il Molise dalle origini ai nostri giorni (IV): “In quel frammento calcareo il profano non vede altro che un rozzo blasone logorato dal tempo e dagli insetti roditori delle rovine edilizie: lo storico ne avverte il contenuto ideale, e in quei gigli — così raffigurati il domani stesso del tradimento vilissimo — riconosce un documento fra i più espressivi e tangibili della morale politica del secolo XV. Quel sasso grossolanamente scolpito ricorda a noi, tardi nepoti, la venalità perfida delle armi di ventura, la quale il Segretario fiorentino flagellò nelle pagine eterne del Principe” .
Autore articolo: Angelo D’Ambra