I cattolici e la sconfitta di Adua

Prima ancora della sconfitta di Adua, aspre voci di contrarietà alla guerra in Abissinia si erano levate dal mondo cattolico. La Civilità Cattolica l’aveva bollata come una “insana guerra”. Si disse, strizzando l’occhio agli scioperi organizzati dal mondo socialista: “Milioni in Africa e fame in Italia”. Poi venne Adua, “lezione della provvidenza per gli italiani dimentichi dei loro doveri e delle loro tradizioni”.

Nelle parole della Civiltà Cattolica tornava l’idea di una maledizione del Papa, degli effetti della scomunica che aveva colpito il Risorgimento. Su un piano più politico, non era contestato il valore dei soldati italiani, esso era piuttosto contrapposto alle deficienze dei comandi, ma soprattutto agli sbagli del governo Crispi.

Non meno traumatizzata fu la reazione di un giornalista di diverso orientamento come Eduardo Scarfoglio. Egli, di fronte alla cattiva prova data dall’Italia in Africa, propose di rinunciare alle armi, di smilitarizzare la nazione, di mandare a casa gli equipaggi dell’esercito e della marina e di passare l’Italia all’amministrazione del Papa che, da solo, avrebbe ridato prestigio internazionale al Paese. La Civiltà Cattolica, pur distante dal liberalismo di Scarfoglio, gli riconobbe qualche credito.

Il “flagello eritreo” era il castigo per i fatti del 1859 e del 1860, l’espiazione per Castelfidardo e per Porta Pia: “Il Negus che altro è stato ed è, pel Faraone italico, se non una delle piaghe, colle quali Iddio lo percuote, ut dimittat populum suum, acciocché renda in libertà il popolo suo, nella persona del Capo della sua Chiesa?”. Non mancò neppure chi riconobbe l’Abissinia come paese fratello, paese di cristiani.

I cattolici denunciarono gli alti costi della guerra fallita e lo sperpero di denaro pubblico in opere di propaganda. Attaccarono l’idea del monumento a Vittorio Emanuele II bollandolo come “una voragine di milioni”, inveirono contro le “statue garibaldesche” che s’innalzavano in ogni municipio, denunciavano l’irrequietezza ed il malessere sociale che portavano a manifestazioni operaie in tutta la penisola. Ad ogni modo Leone XIII si prodigò per la liberazione dei prigionieri di Adua, inviando una lettera a Menelik e spedendo in missione Mons. Macario. “Carità spirituale e amor di patria ci mossero”, disse, a cose fatte, il pontefice mentre le classi dirigenti si strinsero attorno al nuovo Ministero Rudinì per contenere l’avanzata dei cattolici in tutti i campi della vita nazionale, divenuta a quel punto dilagante.

In effetti le disfatte subite ad Adua erano state due, una esterna, evidente, l’altra interna, più in ombra ma forse più pericolosa. Rudinì era l’ultimo tentativo dell’élite risorgimentale per combattere i cattolici – ma anche i socialisti – attraverso una politica di fronte nazionale, supportata da tutte le correnti politiche, di destra e di sinistra.

“Gli inquilini dell’Italia” temettero che il Vaticano avrebbe potuto rompere il non expedit ed in effetti ciò fu discusso nella sesta adunanza dei comitati cattolici di Lombardia. C’era chi voleva, in contrasto con la direzione dell’Opera dei Congressi di Paganuzzi, “agire esplicitamente sul terreno della vita politica con l’intento di rimettere a base della società i principi della religione e della morale cristiana, di influire nella pubblica amministrazione e di preparare nella astensione dalle urne politiche il corpo sano, ben organizzato e istruito degli elettori cattolici, su cui il Santo Padre vorrà contare nell’ora in cui crederà di licenziarli alla conquista del potere”. Restava però aperto e insormontabile, per gli intransigenti, il nodo della questione romana, ostacolo di natura teologica e non storica, ragione di lotta vera contro l’Italia unita.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

Bibliografia: G. Spadolini, L’opposizione cattolica

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