I carlisti e le bandiere con il teschio
Fino all’inizio degli anni ’80, in Italia utilizzare una maglietta nera con un teschio era ancora una scelta piuttosto trasgressiva che poteva esporre al rischio di fraintendimenti politici. Ben diversa è la situazione ai giorni nostri, quando il Jolly Roger (il vessillo comunemente associato ai pirati) è tranquillamente ostentato anche da bambini della più tenera età.
Eppure il fascino per la pirateria ha origini remote; man mano che la minaccia dei bucanieri si allontanò dalle coste e gli assalti ai mercantili nei Caraibi andarono scemando, il giudizio dell’opinione pubblica europea e americana verso i pirati cominciò a mutare radicalmente. Forse nel mondo anglosassone ebbe tutto inizio già con il libro A general history of the robberies and murders of the most notorious pyrates (1724), opera di un non ben identificato capitano Charles Johnson, che ebbe vastissimo successo e consacrò l’immagine di Edward Teach (1680 ca.-1718), alias Barbanera, e di William Kidd (1645-1701) sino all’avvento della cinematografia.
Nell’Oceano Atlantico l’“epoca d’oro” dei pirati iniziò verso la metà del diciassettesimo secolo, giunse al suo apice nel 1720 e terminò bruscamente nel 1725, quando una vasta operazione navale distrusse i covi dei criminali del mare e permise un maggior controllo del territorio. Per quanto oggi in alcune parti del globo la pirateria continui a restare un problema molto serio, nell’immaginario collettivo il pirata è quindi divenuto una figura fortemente connotata, al pari del cowboy e del cavaliere medievale, e ha assunto dei tratti stereotipici che lo hanno reso immortale.
In realtà il teschio con le tibie incrociate non è che uno dei numerosi simboli pirata; all’inizio del diciottesimo secolo le navi dei predoni inglesi, francesi e spagnoli recavano una grande varietà di immagini: cuori sanguinanti, palle di cannone, clessidre, spade, coltelli e scheletri completi. Fino alla metà del Settecento le bandiere rosse erano frequenti quanto quelle nere, ciò che avevano in comune era il significato che desideravano trasmettere: “violenza-morte-tempo limitato” (ergo “arrendetevi subito”), e la miglior raffigurazione di questo concetto era espressa dalla triade spada, teschio e clessidra. Sembra tuttavia che il rosso potesse significare che all’equipaggio della nave sotto attacco non sarebbe stata risparmiata la vita.
I pirati, però, non sono gli unici ad aver utilizzato una bandiera col teschio, simbolo più tardi adottato anche da due famosi combattenti carlisti. Il primo è il generale Ramón Cabrera (1806-1877), il quale, durante la prima guerra carlista (1833-1840), utilizzò una bandiera nera con al centro un teschio bianco, a sinistra una sciabola e a destra una spiga di grano. Tale vessillo significava «vencer o morir», vincere o morire, e annunciava che i suoi soldati avrebbero combattuto fino all’ultimo uomo.
La stampa dell’epoca sembra però confermare che bandiere simili erano diffuse anche tra altre guarnigioni che seguirono Don Carlos nel suo ingresso in Spagna, il Foglio di Verona riporta che il giornale di Bayona l’Elezione, in data 12 maggio 1835, riferisce che «tutti i battaglioni carlisti della Navarra hanno ora una bandiera nera su cui sta scritto gloria, al di sopra, morte al di sotto; nel mezzo avvi un teschio di morto». Secondo la Gazzetta di Firenze del 23 giugno dello stesso anno: «Ciascun battaglione ha un vessillo nero in cima del quale sono scolpiti teschi ed ossa di morto, nel drappo è impresso un teschio e l’iscrizione: la Vittoria, o la Morte!»
L’osservazione si ritrova anche in una lettera spedita da Bilbao il 25 settembre 1840 dal barone Carlo Denbiwski, ma con altre variazioni sul tema: «La gran bandiera navarrese recava uno scheletro in campo nero; sulle nere bandiere dei battaglioni fra quattro teschi leggevasi: Victoria o muerte».
Cabrera combatté anche durante la seconda guerra carlista (1846-1849) e rimase vicino al tradizionalismo sino al marzo 1875, quando (spostatosi su posizioni liberali) se ne allontanò e inviò un comunicato ai suoi ex commilitoni in cui li invitava a riconoscere la monarchia di Alfonso XII. Tuttavia, durante la terza carlistada (1872-1876), un secondo combattente legittimista portò nuovamente un gagliardetto col teschio sui campi di battaglia iberici: il sacerdote Manuel Ignacio Santa Cruz Loidi (1842-1926), noto semplicemente come il Cura de Santa Cruz. Lo scrittore Ramon Del Valle-Inclán (1866-1936) nel suo ciclo di romanzi carlisti inserisce il Cura tra i personaggi dandogli un peso importante nella trama, ma ritraendolo come un fanatico ambiguo, violento e incontrollabile, braccato sia dai tradizionalisti (che non intendevano più sopportare insubordinazioni) che dall’esercito nemico, e perfettamente collocato in un clima generale di sospetto e di congiura.
Miguel de Unamuno (1864-1936), nel romanzo Pace nella guerra (1897), fondato su ricordi storici, descrive così i guerriglieri del prete: «Erano circa ottocento uomini, in quattro compagnie, agili ragazzi bollati come contrabbandieri, sulle cui teste sventolava una bandiera nera sulla quale si leggeva a lettere bianche su un teschio: “Guerra senza quartiere” e un’altra rossa con il motto “Meglio morire che arrendersi”; e un’altra ancora».
Autore articolo: Riccardo Pasqualin, insegnante di materie umanistiche, si dedica allo studio della Storia Veneta e del legittimismo. Tra i suoi testi si può ricordare “Il paesaggio rurale storico nel Comune di Candiana” (2020).
Fonte foto: copertina del volume Don Pedro di Elisonda.
Bibliografia: Cordingly David, Storia della pirateria, Mondadori, Milano 2021; Dembowski Carlo, Due anni nella Spagna e nel Portogallo nel tempo della guerra civile 1838-40. lettere, Tomo II, Pirotta e C., Milano 1842; Ferracuti Gianni, «La mayor de sus infamias»: Sonata de invierno di Ramón del Valle-Inclán, in «Studi Interculturali», 3, 2017, pp. 73-114; «Foglio di Verona», n. 62, sabato sera, 23 maggio 1835; «Gazzetta di Firenze», n. 75, 23 giugno 1835; Martini Giovanni, Don Pedro di Elisonda, a cura di Riccardo Pasqualin, Solfanelli, Chieti 2021; Unamuno Miguel (de), Pace nella Guerra, traduzione di Simone Trecca, Talete, Roma 2010.