Gavinana: il tramonto della Repubblica fiorentina

Il 4 agosto del 1530, le truppe imperiali e pontificie segnarono un’importantissima vittoria a Gavinana, oggi quartiere medievale di San Marcello Piteglio, in appoggio alla restaurazione dei Medici, un successo che segnò le sorti della Repubblica fiorentina.

Firenze, approfittando del Sacco di Roma del 1527, aveva cacciato la potente famiglia, inimicandosi papa Clemente VII, al secolo Giulio dei Medici, ed instaurato la repubblica. Eppure nel giro di pochi mesi Carlo V ed il pontefice erano in trattative per suggellare l’alleanza che avrebbe portato all’incoronazione bolognese dell’imperatore. In virtù di questi accordi, Alessandro, figlio illegittimo di Lorenzo de Medici, sposò Margherita d’Austria, la figlia di Carlo V, e Firenze, priva d’ogni aiuto, anzitutto di quello veneziano che invece le era stato promesso, finì assediata perché la coppia potesse stabilirvi la sua signoria.

Nell’agosto del 1530, la città pativa ormai da dieci mesi un duro isolamento. Era sottoposta ad una pioggia quotidiana di proiettili e costretta a razionare i viveri. Un vasto campo di soldati minacciava il suo orizzonte. Tra gli stendardi spagnoli c’era l’attendamento del capitano generale delle truppe imperiali in Italia, il viceré di Napoli, Filiberto di Chalons, principe d’Orange. Scrutava pensieroso le mura rinvigorite dagli ingegneri di Michelangelo Buonarroti ed udiva i lamenti della peste levarsi dalla città. Ancora distante, marciava di gran lena, in soccorso dei fiorentini, Francesco Ferrucci cui un piano ordito dal Consiglio dei Dieci aveva suggerito di piombare sugli assedianti, mentre le porte di Firenze si sarebbero aperte in una micidiale sortita, stringendo così i nemici in una morsa. Il piano era valido e sarebbe stato fatale, ma Carlo V aveva le sue spie e fu presto a conoscenza di tutto o forse fatale fu l’indecisione, il realismo o anche la doppiezza del comandante fiorentino, Malatesta Baglioni, che propose invece al nemico patti di resa, o ancora può darsi che il disastro fiorentino si debba alle missive di Fabrizio Marramaldo dei baroni di Lusciano che inseguì il Ferrucci in ogni suo spostamento. La vicenda è stata ricostruita nei modi più disparati. Fatto sta che i propositi del Consiglio dei Dieci fallirono impietosamente.

Ferrucci aveva quarantuno anni. Era nato a Firenze, il 14 agosto del 1489, ed aveva militato al seguito di Giovanni delle Bande Nere. In un periodo in cui i fiorentini avevano subito le pesanti sconfitte di Perugia ed Arezzo, il suo nome s’era accresciuto in prestigio nella difesa di Empoli e nella riconquista della fortezza di Volterra, insorta e schieratasi con Carlo V. Gli imperiali, guidati dal napoletano Fabrizio Marramaldo, si erano visti vanificare ogni soccorso, ogni assalto ed avevano dovuto rinunciare ai loro propositi.

La forza preponderante delle armate di Carlo V era ad ogni modo lampante ed Empoli, abbandonata dal Ferrucci per recuperare Volterra, era immediatamente passata agli imperiali. Affinché Firenze avesse la meglio era indispensabile assestare un colpo micidiale al nemico.

Ferrucci, lasciata Pisa, con tremilacinquecento uomini, si mise in cammino per raggiungere l’area a nord di Firenze e premere sugli assedianti, mentre la sortita avrebbe dovuto sviare la loro attenzione verso la parte meridionale della città, oltre l’Arno. Il Varchi annotò “tremila pedoni, la maggior parte archibusieri, sotto venticinque bandiere e da trecento a cinquecento cavalli”. Marciavano “a sette per fila” capitanati da un lungo elenco di condottieri: Gian Paolo da Ceri della famiglia Orsini, Alfonso da Stipicciano, Amico d’Arsoli, Carlo da Castro, Carlo conte di Civitella, l’albanese Niccolò Masi detto Pulledro, Goro da Montebenichi, Antonio da Piombino, Agostino da Gaeta, Sprone e Balordo dal Borgo, il francese Vaviges, il Capitanino da Montebuoni, Bernardo Strozzi il Cattivanza, Giuliano Frescobaldi, Gigi Macchiavelli, Gigi Niccolini…  Il primo agosto furono a Pescia, il 2 a Calamecca, il 3 a San Marcellino. Li tallonava il Marramaldo con azioni repentine e sanguinose, ma ciò che li scosse e che distrusse ogni speranza sulla felice attuazione del piano fu quello che si trovarono d’avanti: il principe d’Orange, col fior fiore dell’esercito imperiale.

Sì, inaspettatamente Filiberto di Chalons era lì, aveva lasciato le mura fiorentine con ottomila fanti e millecinquecento cavalli, senza che Malatesta Baglioni muovesse un dito. Aveva guidato le sue schiere da Pistoia per Collina e i Lagoni ed era sceso a Pontepetri pronto a schiacciare i soccorritori di Firenze. Cosa avrebbe dovuto fare Ferrucci?

A quanto pare (lettera di Ferrucci ai Dieci del 2 agosto) il condottiero aveva un suo personale disegno che però trovò l’opposizione dei fiorentini, ovvero quello di puntare addirittura su Roma e minacciarla di un nuovo sacco. Fallito il piano per la mossa dell’Orange, avrebbe anche potuto evitare lo scontro, come gli fu suggerito, ma pensò di conquistare una posizione di vantaggio avanzando su Gavinana. Fu ancora una volta sorpreso quando le campane del villaggio gli annunciarono che Marramaldo era già lì.

Era il 4 agosto ed i due schieramenti affluivano nell’abitato attraverso due porte diverse, i fiorentini da Porta Papinia e gli imperiali da Porta Peciana, scagliandosi l’uno contro l’altro. Il Varchi chiarisce come Ferrucci facilitò le sue manovre dividendo il suo esercito: “L’antiguardia, ch’erano quattordici bandiere, guidava il Ferruccio coperto di tutt’arme sopra un cavallo bianco; e la retroguardia, ch’erano quindici, il signor Giampaolo ecc. I cavalli erano medesimamente divisi in due ordinanze sotto quattro squadroni; i primi guidava il signor Amico d’Arsoli e Niccolò Masi da Napoli di Romania, chiamato il Pulledro; e le seconde Carlo da Castro e Carlo conte di Civitella”.  Nelle fitte schermaglie sembrarono avere la meglio quelli di Ferrucci, ma le fanterie del principe d’Orange incalzarono sul piano detto di Vecchietto e su quello delle Vergini, poi attraversarono l’abitato di Gavinana ed attaccarono la cavalleria. Sotto il sole cocente di agosto, si accese una mischia furiosa nella piazza e nei contigui castagneti. Nel trambusto il principe cadde colpito da un archibugio e fu inutile provare a nasconderne la morte. Spirò così “un coro da lion pardo, era liberale alla francese e alquanto astuto alla spagnuola; era diligente in questo assedio et non manco cupido di gloria che dei denari per potere ispendere” (Giovio). La notizia del suo decesso si diffuse rapidamente e le truppe imperiali finirono nello scoramento sentendo le grida di giubilo degli avversari. A Pistoia e Firenze iniziarono persino a circolare voci di una vittoria, ma era davvero troppo presto perchè giunse la notizia tremenda dei successi degli armigeri imperiali di Alessandro Vitelli che avevano completamente distrutto la retroguardia fiorentina, capitanata dall’Orsini nell’area di Piano di Doccia, ed ora convergevano su Gavinana da ponente, forti pure dei fanti di Marzio Colonna.

Il sole si avviava a tramontare e sul campo continuavano ad affluire i rinforzi di Carlo V, truppe lanzichenecche fresche che non faticavano ad avere la meglio sui fiorentini. Messo alle strette, ferito e privo ormai d’ogni speranza, Ferrucci fu fatto prigioniero e quindi ucciso. Su questa morte si è molto dibattuto. Ventidue anni dopo la battaglia, infatti, Paolo Giovio ricostruì gli ultimi istanti della vita del capitano fiorentino, lasciando ai posteri una pesante ombra su Fabrizio Marramaldo: “Poi il Ferruccio, così armato com’e gli era, fu menato dinanzi al Maramaldo. Allora il signor Fabrizio gli disse: pensasti tu mai quando crudelmente e contra l’usanza della guerra, tu impiccasti il mio tamburino a Volterra, dovermi venir nelle mani? Rispose egli: questa è una delle sorti che porta la guerra, la quale guerreggiando a te può ancora avvenire; ma quando anco tu m’ammazzi, non perciò né utile né onorata lode t’acquisterai della mia morte. Il signor Fabrizio tuttavia… gli fece cavare la celata e la corazza e gli passò la spada nella gola”. Marramaldo, quindi, si sarebbe con ignominia vendicato della sconfitta di Volterra. Le penne risorgimentali avrebbero dato forza a questa versione che manca di riscontri certi, rimarcando la distanza morale tra Ferrucci, difensore dell’indipendenza patria, e Fabrizio Marramaldo, uomo ingiusto e violento, venduto allo straniero. Edoardo Alvisi, con “La Battaglia di Gavinana” del 1881, capovolse questa lettura e riferì la testimonianza diretta di Angelo Sperino che scagionava Marramaldo: “il primo che gli dette fu un gentiluomo spagnuolo detto Garaus continuo del principe d’Orange”. Sulla stessa scia anche i “Commentari civili” di Filippo de’ Nerli riferiscono: “Gli uomini del principe o pel dispiacere della morte del loro signore o per quelasivoglia altra cagione che gli movesse, privarono della vita anche il Ferruccio”. Purtroppo la veridicità dei fatti sarà per sempre offuscata dalla retorica.

Sì combatté dalle due alle sei del pomeriggio e innumerevoli furono i morti, ancor più quelli che si registrarono nei giorni successivi per ferite. Il Cini scrive: “Gavinana fu dal Maramaldo tutta saccheggiata, e le sue case tutte quante svaligiate; fino delle campane fu dalla rapacità dei soldati imperiali privata per venderle, trasportandone alcune di esse fino nel lucchese”. Giorni dopo le spoglie di Filiberto di Chalons, che erano state sepolte in una chiesa locale, furono riesumate per essere spedite in Francia. Di Amico d’Arsoli, uno dei numerosi prigionieri in mano imperiale, si sa che fu comprato da Marzio Colonna per seimila ducati e da questi ucciso per vendicare la morte di suo cugino Scipione Colonna, ammazzato dal d’Arsoli in duello anni prima.

A Firenze, intanto, subentrava lo sconforto. I commissari, saputo della disfatta, si lanciarono contro accuse reciproche. Circolavano voci e sospetti di tradimenti. Anche sul da farsi crebbe la confusione. Il Malatesta inviò i suoi legati a Ferrante Gonzaga, succeduto all’Orange nel comando degli imperiali, chiedendo la resa purché la città fosse preservata salva, ma il Consiglio gli consegnò l’ordine di continuare a combattere. Egli rifiutò, adducendo che questa scelta avrebbe portato alla rovina, al sacco, alla morte di tanti innocenti. Più tardi avrebbe ricevuto dal pontefice feudi e ricompense…

La prospettiva del Malatesta era tuttavia condivisa dalla cittadinanza. All’appello dei Dieci alle armi, infatti, risposero solo pochi cittadini ed ogni proposito bellicoso fu dunque arginato. Il 12 agosto del 1530 Firenze, in cambio del perdono di tutti gli atti di disobbedienza, si consegnò alla “maestà cesarea” di Carlo V, accettando di pagare ottantamila ducati in risarcimento. Si aspettò che le acque si calmassero definitivamente e le porte della città si riaprirono ai Medici, il 5 luglio 1531. Il giorno dopo fu letta solennemente una bolla imperiale, datata 21 ottobre 1530, che proclamava Alessandro de’ Medici come duca di Firenze e stabiliva la successione in linea maschile. Furono quindi aboliti il gonfalonierato di giustizia ed il magistrato dei Priori e vennero creati un Consiglio dei Duecento ed un Senato dei Quarantotto. Attorno al nuovo duca si strinsero le personalità di Baccio Valori, Francesco Guicciardini, Francesco Vettori, Filippo de’ Nerli e Filippo Strozzi.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonti: D. Cini, Descrizione della battaglia di Gavinana; B. Varchi, Istorie fiorentine; A. Valori, La difesa della repubblica fiorentina; E. Alvisi, La Battaglia di Gavinana

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