Garibaldi in Sud America
La vita del giovane Garibaldi mutò per sempre il 3 giugno 1834 quando il Consiglio di Guerra Divisionale di Genova lo condannò, con Vittore Mascarelli e Giovan Battista Caorsi, alla “pena di morte ignominiosa”. Non avrebbe più potuto mettere piede in Italia ed anche l’Europa non avrebbe più garantito lui l’ospitalità di un tempo. Dopo una breve sosta a Tunisi, al servizio del bey, ed un ritorno a Marsiglia, si decise a salpare per il Sud America, dove già molti esuli politici avevano trovato casa.
Negli ultimi quindici anni era stato in tutti i porti del Mediterraneo, testimone di naufragi, vittima di aggressioni piratesche, protagonista di sabotaggi e ribellioni. Dal giorno in cui, in una taverna di Taganrog, sul Mar Nero, aveva sentito parlare di Giovane Italia da Giovan Battista Cuneo da Oneglia si era gettato a capo fitto nelle idee socialistiche e patriottiche. Aveva così conosciuto Mazzini e da lui aveva subito ricevuto un incarico: impadronirsi di una delle navi della Regia Marina Sarda e appoggiare la rivoluzione che stava per scoppiare a Genova, mentre una spedizione del generale Ramorino avrebbe invaso il Piemonte attraversando la Savoia. Garibaldi, il 26 dicembre 1833, si arruolò sotto mentite spoglie nella marina e il 3 febbraio finì sulla De Geneys. L’imbarco però durò ventiquattro ore, poi sul suo foglio matricolare fu scritto “assentatosi senza licenza”. Probabilmente scoperto e sorvegliato, aveva lasciato la nave ed era corso a terra per accertarsi dei preparativi del moto insurrezionale che doveva avere inizio a Piazza Sarzana il giorno 11, con l’assalto alla caserma dei carabinieri. All’Osteria della Colomba, però, seppe che alcuni suoi compagni erano stati arrestati e, trascorsa la notte, non ritornò a bordo, capendo che tutto era saltato. Non essendosi ancora inserito organicamente nell’associazione mazziniana non sapeva a chi rivolgersi. Dovette fuggire, si tagliò capelli e baffi, cambiò i suoi abiti e ,con l’aiuto della fruttivendola Natalina Pizzo e di Caterina Boscovich, attraversò il confine e riparò a Nizza, poi a Marsiglia, dove apprese della sua condanna a morte.
Vide la prima volta Rio de Janeiro nel 1836, accolto da Luigi Rossetti. Pure lì i mazziniani erano impegnati per un ideale di rivoluzione. Con loro strinse legami con un capo rivoltoso rinchiuso nelle prigioni imperiali, Bento Gonçalves da Silva, presidente della Repubblica Riograndense, e con un italiano suo sostenitore e consigliere, il marchese bolognese Livio Zambeccari. Bento Gonçalves da Silva gli concesse “lettere di corso” e lui passò al servizio della repubblica ribelle.
A bordo della Mazzini divenne corsaro con quattro liguri, Rosseti, Luigi Carniglia, Pasquale Lodola, Antonio Illama e Maurizio Garibaldi, un sardo, Giacomo Giorentino, un altro italiano di cui non si conosce provenienza, Giovanni Lamberti, due italiani maltesi, Luigi Calia e Giambattista Caruana, un brasiliano Joao Baptista, un portoghese, José Maria, ed un marinaio veneziano di cui Garibaldi tacque sempre il nome perchè si rivelò un vile. Quando la Mazzini affondò il suo nome passò alla goletta Luisa. Con essa Garibaldi ingaggiò un furioso combattimento nelle acque di Montevideo, alla punta Jesus y Maria, contro due lancioni della Repubblica Orientale. Un tentativo di arrembaggio fu respinto a sciabolate e si sviluppò un combattimento a fucilate nel quale una pallottola gli trapassò il collo, ma il nemico va in ritirata. Gravemente ferito e sicuro di morire, guidò la sua nave nell’estuario di Rio de la Plata e nel porto di Gualeguay dove domandò asilo al generale Pascual Echague, governatore della provincia di Entre Rios, che invece rispose sequestrandogli la nave. Garibaldi, così, fu catturato, curato dai medici del presidente argentino Rosas, poi fuggì. Ripreso, fu torturato dal capitano Milan e sbattuto in carcere. Alla fine, liberato, tornò da Gonçalves da Silva ancora disposto a combattere.
Fu al comando di una minuscola flotta che aveva il suo cantiere in un grosso capannone per salare carni, il Galpon de Xarqueada. Qui fu assediato inaspettatamente dal colonnello Moringue e resistette per un’intera giornata con appena undici compagni contro centocinquanta. Quando tutto sembrò perduto, un colpo centrò al braccio Moringue determinando il ritiro del nemico. Sei di quegli undici vittoriosi erano italiani.
Anita entrò nella sua vita poco dopo. I suoi amici eran tutti morti in un naufragio sulle coste di Areringuà, nel luglio del 1839. Pochi giorni dopo le truppe del colonnello Canabarro entrarono nella città di Laguna, capitale della provincia di Santa Caterina, e proclamarono la repubblica come aveva fatto Bento Gonçalves da Silva nello stato di Rio Grande del Sud. Garibaldi era lì, con il Seival, scampato al naufragio e non poteva restar con le man in mano. Nel giro di pochi giorni fu a bordo del Rio Pardo, sotto la bandiera della repubblica ribelle e con lui c’era una ragazza che aveva conosciuto da poco: Anita.
La loro storia iniziò subito con un fatto d’armi imprudente e temerario quando il Rio Pardo ed altri due legni affrontarono “ventidue vele” della flotta di Pietro II, imperatore del Brasile. Tutti gli ufficiali delle tre navi perirono, lo scontro sembrava destinato a finire tragicamente, Anita fu inviata a chiamare Canabarro, ma tornò con un nulla di fatto perché il colonnello era in rotta ed ordinava di incendiare la flotta affinché non cadesse in mano nemica. Quel giorno Anita si espose a grandi pericoli, mentre la rivoluzione riograndense si avviava alla fine. Tre mesi dopo, nel dicembre 1839, quando, in uno scontro col colonnello Mello, nella pianura di Coritibanos, finì circondata e il suo cavallo ucciso. Ottenne di poter cercare tra i morti il cadavere del suo compagno e quando non lo trovò, si nascose, guadagnando la fuga dopo il tramonto. Si inoltrò allora in boschi fittissimi, li attraversò per quasi cento chilometri sino a Lagos dove trovò altri cadaveri di repubblicani, assaliti e orribilmente mutilati dalla popolazione ostile. Nemmeno lì c’era il corpo di Garibaldi. Proseguì ancora attraversando terreni rocciosi e torrenti sino al termine della foresta. Finalmente vide il suo compagno e poté riabbracciarlo. L’anno dopo, il 16 settembre 1840, nacque Menotti, a Mostardas, nello Stato del Rio Grande do Sul.
Non ci fu per loro tranquillità. La città fu assalita da Moringue mentre Garibaldi era a Settembrina per comprare abiti al neonato. Anche Rossetti era caduto. Quando tornò seppe che Anita era fuggita col suo bimbo, di nuovo nella foresta. Fu lì che Garibaldi la trovò, stremata, mentre allattava sotto una quercia.
La situazione dei repubblicani era disperata, ma la coppia, con Menotti legato in un fazzoletto al collo del padre, non rinunciò alle armi. Seguirono Canabarro nella Sierra, aggregati ad una colonna di 1800 uomini sino a San Gabriel. Dovevano, però, trovare un posto più sicuro per quel bambino e, a malincuore, Gonçalves da Silva li lasciò partire per Montevideo, dove furono ospiti dell’esule italiano Napoleone Castellini e, poco dopo, il 26 marzo 1842, si sposarono.
Montevideo, però, non era affatto un posto tranquillo, era la capitale di un paese sconvolto dal conflitto tra l’ex presidente Oribe, sostenuto dall’esercito argentino di Rosas, e il generale Fructuoso Ribera. Garibaldi e Anita non seppero restare indifferenti alla realtà locale.
Garibaldi abbandonò presto la sua occupazione di sensale mercantile e accettò il comando della corvetta Costituzione, armata di diciotto cannoni. Con questa nave, il brigantino Pereira e la goletta Procida, raggiunse la provincia di Corrientes, risalendo il Paranà, tallonato dall’intera flottiglia argentina. Riparò presso l’isola di Martín García e si impadronì di alcune imbarcazioni con le quali poté, col favore della nebbia, liberarsi degli inseguitori, facendo loro credere di aver proseguito lungo il corso dell’Uruguay. Si inoltrò, invece, sino a Nueva Cava e qui, rintracciato dal nemico, dovette affrontarlo il 15 giugno 1842.
Le navi dell’ammiraglio Brown per tre giorni e tre notti lo tempestarono di cannonate. Ripose come potè, tentando pure di incendiare le imbarcazioni nemiche. Quando restò senza munizioni, fece fondere le catene dei suoi legni per continuare a rispondere al fuoco. Alla fine, ridotte a rottami le navi, diede fuoco alle polveri e scese a riva. Atterriti dall’inaspettata esplosione, gli argentini, inviati a catturarlo, scapparono.
Intanto Montevideo era finita assediata e Garibaldi fu tra gli italiani che presero le armi costituendo una Legione. A guidarli c’era Luigi Missaglia che, il 9 luglio 1843, ricevendo il vessillo nero con l’effige del Vesuvio dalla moglie del presidente Ribera, disse: “Italiani, questi non sono i colori che la nostra patria, costituita in nazione libera e indipendente dalle Alpi al mare, un giorno adotterà. Mentre la sventura pesa sulla nostra patria, inesorabile e tenebrosa come un lutto, nessun altro colore se non il nero deve essere la divisa di chi ha nel cuore le miserie dell’Italia. Come il Vesuvio lancia la sua ardente lava, così dai nostri cuori uscirà un giorno la forza che annienterà tutti gli ostacoli; i quali oggi impediscono alla nostra amata patria d’innalzarsi a quell’altezza dalla quale, per l’avversità del destino, è discesa”.
Alla prima prova del fuoco però la Legione italiana si sbandò, patendo lo scherno dei francesi che giudicavano gli italiani essere solo “capaci di ferire alle spalle di notte e a tradimento”. Sentendosi “morire di vergogna” Garibaldi assunse il comando della Legione e la portò alla celebre vittoria di Sant’Antonio del Salto. La lotta fu aspra, le condizioni in cui poté vivere furono misere, la determinazione e la fedeltà ai valori non scemò mai. Sir W. G. Ouseley, diplomatico inglese a Montevideo, confessò: “Proprio in quel tempo, e mentre Garibaldi era quasi in uno stato di disperazione, Rosas fece pressione per avvicinarlo e offrirgli non solo il comando della flotta di Buenos Aires con emolumenti considerevoli, ma una somma di 30 mila dollari sonanti da pagarsi immediatamente. Ma questa tentazione non fece alcun effetto su Garibaldi”.
Crebbe la sua fama, crebbe la sua capacità organizzativa e il suo acume tattico e, durante l’assedio di Montevideo, dove operò al fianco di francesi e inglesi, le sue gesta ebbero risonanza internazionale.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Bibliografia: A. Pratta, Garibaldi; A. Scirocco, Giuseppe Garibaldi