Evoluzione dei costumi degli antichi romani

Come potè Roma, nei primi tre secoli e mezzo della sua esistenza, innalzarsi da città egemone nel Lazio a signora di tanti popoli e dominatricre del Mediterraneo? Da dove trasse le sue energie spirituali e materiali? Catone e Cicerone avrebbero certo risposto ricordando le virtù di Cincinnato, Curio Dentato e Fabrizio. Tuttavia, la probità di quei tempi cedette presto il posto a smanie di lusso, egoismi e corruzione e si assistette ad una evoluzione dei costumi degli antichi romani.

Gli antichi romani erano stati per lungo tempo dediti all’agricoltura, uomini laboriosi e rozzi, intenti a coltivare i loro campi, a combattere contro i loro nemici, a compiere le pratiche della loro religione. Catone nel suo De agri cultura ci dà un’idea dei loro costumi: “I nostri antenati, allorché essi volevano fare l’elogio d’un uomo, dicevano: buon lavoratore, buon coltivatore; e questo elogio sembrava il più grande che si potesse fare”. Cita pure alcuni dei loro vecchi proverbi molto esplicativi: “Cattivo agricoltore è quegli che compra ciò che la terra può fornirgli… Cattivo economo è quegli che fa nel giorno ciò che egli può fare nella notte… La coltivazione dei campi è cosa fatta che, se tu ritardi una sola faccenda, ritarderai pure tutte le altre”. E Cicerone, nel Cato Maior de senectute, gli fa dire: “I diletti che prova l’agricoltore mi sembra che siano i più conformi alla vita dell’uomo veramente saggio”.

Duri al lavoro, aspri al guadagno, economi e ordinati, questi campagnoli erano stati la forza degli eserciti romani. Essi abitavano in case piccole, si nutrivano semplicemente di grano e orozo, di pane e di legumi. Carne la mangiavano soltanto nei giorni festivi. Raramente bevevano vino. Non indossavano poi che una tunica a cui, quando faceva freddo, sovrapponevano un mantello di lana. Per lungo tempo questi agricoltori umili e fieri erano stati l’elemento prevalente nelle assemblee del popolo, e avevano così dominato nella repubblica. I nobili che volevano farsi eleggere alle magistrature si recavano nella piazza del mercato, nel foro, a cercare il loro consenso.

La loro vita trascorreva nel lavoro, coltivavano i campi, mentre le donne filavano la lana, tessevano i panni, macinavano il grano. Avevano come ideale l’uomo gravis, parola che noi potremmo forse tradurre con “dignità” piuttosto che con “gravità”, e che stava ad indicare quel complesso di qualità morali, che elevavano una sopra i suoi concittadini.

A datare però dal II secolo le cose iniziarono a mutare. La nobiltà aveva preso ad imitare i costumi orientali, facendo sfoggio di stoffe, gemme preziose, mobilia d’argento, vasellami d’oro e codazzi di servi. La decadenza era iniziata da qui, seguendo i vezzi dei generali che avevano conosciuto bene la Grecia e l’Oriente, i due fratelli Scipioni, Flaminio e Paolo Emiliano, vincitori in Macedonia, più tardi Lucullo, vincitore del Ponto e dell’Armenia. Così tutta la vita romana s’andò trasformando, anche le vecchie credenze religiose finirono affiancate da filosofie e divinità estere. Soprattutto decadde la disciplina familiare, i legami matrimoniali vacillarono, i divorzi divennero cosa comune, le donne nobili abbandonarono le mansioni di casa dedicandosi a frequentare luoghi pubblici e di divertimento. Il quadro spaventevole di tale corruzione si rifletté nelle Satire di Giovenale. Dai nobili la corruzione dei costumi si spostò al popolo.

Ammiano Marcellino, nel descrivere lo stile di vita della plebe romana, mostra questo triste declino dei costumi. Ci parla di plebe oziosa e pigra, ossessionata solo dalle gare del circo e dal cibo. Cita i Messori, gli Statari, i Semicupe, i Serapini, i Cicimbrico che “consacrano tutta la loro vita al vino, ai dadi, ai bordelli, ai piaceri ed agli spettacoli; per loro il Circo Massimo è il tempio, la casa, l’assemblea e la meta dei loro desideri”. Disgustato aggiunge: “La maggior parte di questa gente si dedica ad ingrassarsi mangiando. Perciò guidati dal fiuto degli odori di cucina e dagli strilli delle donne, simili allo schiamazzo dei pavoni affamati, a cominciar dal cando del gallo stanno, sulla punta dei piedi, dietro alle pentole e si rodono le unghie in attesa che le pietanze si raffreddino. Altre invece osservano così attentamente la massa disgustosa di carne cruda che si sta cuocendo, che sembra di vedere Democrito che scruta con i medici le parte interne degli animali selezionati ed insegna in qual modo i posteri potranno curare le malattie…”.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

Bibliografia: V. C. Giorni, La vita dei Romani descritta dagli antichi

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