Destra e Sinistra storica
Il Parlamento nazionale nel 1861 si mostrava ben diviso in una droite ed in una gauche, la prima espressione dell’indirizzo politico liberale e monarchico di Cavour, la seconda, voce dell’azione volontaristica, democrativa e rivoluzionaria dei garibaldini e dei mazziniani. Il distacco tra le due componenti fu esasperato sino al 1870, quando la questione romana fu risolta e si potè assistere ad un progressivo ripiegamento dei rivoluzionari sul piano legalitario. Uomini come Cairoli, Zanardelli, Nicotera e Crispi, rinunciarono alle pregiudiziali antimonarchiche e assunsero i panni ministeriali in un mutato clima nazionale. Fu una vera e propria normalizzazione, una smobilitazione delle forze combattive che rafforzò lo stato unitario e mise la destra storica sul viale del tramonto. Ricasoli, Lanza, Sella, Minghetti, Visconti Venosta, costituivano una classe di governo esperta e competente, orientata verso uno stato forte di natura etica, come voleva Silvio Spaventa, ma i giovani della sinistra apparivano più aperti al problema sociale.
Tutto si consumò nel marzo del 1876 con la cosiddetta “rivoluzione parlamentare” che portò la sinistra storica al potere, guidata da uno dei suoi esponenti più preparati, il lombardo Agostino Depretis. Cosa ci fu di rivoluzionario? Poco, molto poco. La sinistra storica poggiava sulla piccola e media borghesia, rappresentava gli interessi dei professionisti, del ceto impiegatizio, dei piccoli coltivatori. Il suo programma previde riordinamento amministrativo, perequazione delle imposte, maggiori autonomie comunali, istruzione elementare obbligatoria e gratuita. Lo stesso Depretis non pensò mai di realizzare una qualche forma di rottura politica, auspicò invece il coagularsi di tutte le forze “sinceramente progressiste”, qualunque fosse la loro origine, per “compiere il vangelo civile della nostra risurrezione”. Era il preannuncio del trasformismo.
In questo clima si radicò il gioco delle clientele ed i particolarismi. Zanardelli, in un discorso ad Iseo del 1878, poteva ben dire: “I deputati sono spesso invincibilmente legati agli interessi di campanile, al tirannico patronato di pochi individui, devono rendersi, anzicché i rappresentanti della nazione, i procuratori degli elettori, sono talvolta costretti a frequentare più che la Camera l’anticamera dei ministri. L’atmosfera parlamentare non meno che l’amministrativa apapre da quest’esigenza turbata e viziata”. Tutto ciò fu una peculiarità del Paese, dal governo Depretis, a quello Nicotera, sino a quelli Crispi, e il partito mazzioniano che avrebbe potuto approfittarne, era sterile. Alcuni suoi proseliti diedero vita, nel 1878, sotto la guida di Agostino Bertani, al partito radicale, una forza d’indirizzo democratico, ma che accettava il regime istituzionale monarchico.
In effetti Destra e Sinistra, isolando le tendenze più estreme come quelle più conservatrici e radicali, raggiunsero una sorta di osmosi. I radicali rappresentarono un tentativo di ledere il gioco trasformista. Volevano l’abolizione dei monopoli, le bonifiche, la riforma del sistema penitenziario, l’autonomia della magistratura, il suffragio universale. I suoi esponenti sedettero accanto ai pochi repubblicani del tempo, quelli capeggiati da Giovanni Bovio.
Nel 1892 nacque il partito socialista, a Genova, dove le tendenze bakuniniste furono abbandonate, ma non fu ancora abbracciato il marxismo, almeno non del tutto. Repubblicani e socialisti si odiarono. Il problema istituzionale per i secondi veniva assorbito nell’idea di rivoluzione sociale, i repubblicani invece continuava ad essere centrale e non come premessa d’uno stato classista. Il partito socialista però fu il vero protagonista del rinnovamento politico, portò alla fine della mentalità municipale, si pose con la sua organizzazionecentralistica su un piano del tutto nazionali, diede alle competizioni elettorali il respiro d’un lotta che investiva l’intero paese, senza frazionarsi in conventicole di campanile. Tuttavia i suoi legami col mondo del lavoro erano piuttosto sentimentali, almeno in buona parte d’Italia, tanto è che quando scoppiò la rivolta dei fasci siciliani, i socialisti restarono sorpresi e poterono solo solidarizzare con i manifestanti. Andò diversamente per i tumulti milanesi del maggio del 1898, quelli dei cannoni del generale Bava Beccaris: Filippo Turati e Oddino Morgari, Bissolati e Bertezi, Lazzari e la Kuliscioff, finirono tutti arrestati. Vennero accusati “perché, col mezzo di opuscoli, discorsi e conferenze, col mezzo dell’istituzione di circoli, comitati, riunioni e leghe di resistenza, e allo scopo, concertato e stabilito fra essi e altri capi ora latitanti di partiti sovversivi, di mutare violentemente la costituzione dello Stato e la forma di governo, riuscirono a suscitare la guerra civile e a portare la devastazione e il saccheggio nella città di Milano nei giorni 6, 7, 8 e 9 maggio ora decorso, cooperando anche immediatamente e direttamente all’azione, e procurando di recarvi assistenza e aiuto”.
La crisi spinse però i liberali ad un mutamento delle loro tattiche. Basta maniere forti, bisognava fare qualche concessione e avviare riforme. Furono questi i propositi del decennio giolittiano.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Fonte foto: dalla rete
Bibliografia: C. Morandi, I partiti politici nella storia d’Italia