Catone contro Scipione

Di Marco Porcio Catone e della sua lotta contro Publio Scipione ci parla Della Corte, autore di Catone Censore, Firenze 1969.

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Le sue vittime, i Glabrioni, i Termi, i Nobiliori erano figure di secondo piano, satelliti nel grande sistema politico oligarchico degli Scipioni. Con la caduta di quelli, dopo lo scandalo delle loro malefatte, Catone aveva intaccato soltanto superficialmente la compattezza di quel sistema; si avvedeva che questo pareva sempre più saldo, ora che alle vittorie di Spagna e d’Africa Publio Scipione aveva aggiunto, in collaborazione col fratello Lucio, detto l’Asiatico, un nuovo lauro alla famiglia. Sapeva che la battaglia di Magnesia, la precipitosa fuga di Antioco, il possesso dell’Asia Minore avevano posto gli aristocratici su un piedistallo, da cui pareva impossibile farli cadere: dapeva che avevano acquistato in Oriente un impero che sembrava ricordare, per i metodi e la rapidità di conquista, quello glorioso di Alessandro Magno. Se alla egemonia macedone si sostituiva in quelle terre la romana, v’era il caso che alla dinastia d’Alessandro potesse succedere il casato degli Scipioni, ribattezzati grecamente col nome di Scipiadi.

Eppure quello che pareva impossibile divenne realtà. Non l’invidia degli dei colpì Scipione all’apice della sua potenza, ma una ben condotta serie di azioni politiche, di denucne, di scandali e di attacchi tribunizi, in piena conformità con i sistemi parlamentari, rese possibile l’allontanamento e la scomparsa di questo colosso della oligarchia di Roma, e creò le premesse perchè il partito dei tradizionalisti facesse eleggere censore, con il suo collega inseparabile Flacco, proprio quel questore che Scipione aveva altezzosamente giudicato in Siracusa, e che ora, troppo desideroso di non compromettere la sua elezione con una mossa falsa, non volle più agire di persona, ma dalle file dei suoi fidi trasse uomini audati e senza scrupoli che attaccarono Scipio, conforme agli ordini. Rimase sempre, per tutta la durata delle azioni politiche e giudiziarie, che minacciavano di travolgere in un processo entrambi i fratelli, nell’ombra, rompendo di rado il suo silenzio con la sua approvazione, tirando o allentando le redini ai suoi focosi tribuni che alla sua scuola avevano appreso la tecnica dell’aggressività forense.

Sapeva che il punto debole del governo degli Scipioni in Asia era l’amministrazione: essi avevano pattuito con Antioco una indennità di guerra di 15.000 talenti, di cui 500 versati direttamente nelle loro mani. Memore della sua questura siciliana e del disordine del bilancio scipionico, si avvide subito che quei 500 talenti erano stati spesi in modo non giustificabile, ripartiti forse fra gli ufficiali del seguito, distribuiti in premi e gratificazioni. Un altro condottiero, meno superbo e più pratico di Scipione, avrebbe trovato modo di dimostrare come quella somma, entrata nelle casse dell’esercito, fosse di nuovo posta in uscita; oppure più sagacemente avrebbe trattato personalmente con Antioco per la consegna privata di una somma che non figurasse nel bilancio ufficiale. Ma Scipione non badava a queste sottigliezze amministrative, convinto che nessuno mai avrebbe osato rivedere i suoi conti. Cosicché, quando in Senato furono aizzati contro di lui i tribuni della plebe, per chiedere al fratello Lucio dove fossero andati a finire quei 500 talenti, Scipione non permise al fratello di rispondere, ma fattosi portare il registro dei conti, lo strappò in tanti pezzi e, gettandolo ai tribuni, li invitò ironicamente a ricostruire da quei frammento il bilancio della spedizione…

Non c’era in tutta Roma un altro, che si potesse permettere tale gesto, se non il vincitore di Zama… Se il senato era stato impressionato da questo gesto dittatorio del suo principe, il popolo non si sarebbe tanto facilmente lasciato commuovere… Datoche il senato non era il luogo più adatto, fu scelta una concione popolare; si produsse un nuovo accusatore, anch’egli tribuno, e si ripeté la domanda: dove fossero andati a finire i denari di Antioco? Scipione, uso ormai ai colpi di scena magistrali, non rispose neppure questa volta alla questione, ma ricordando che quel giorno era l’anniversario della battaglia di Zama, grazie alla quale Roma era stata salvata e i suoi tribuni avevano ora modo di poter parlare, invità il popolo perchè salisse con lui in Campidoglio a ringraziare gli dei. Una seconda trovata, non meno teatrale della prima, aveva salvato la situazione. Ma ormai… il mancato rendiconto costituiva una lampante illegalità, passibile di pena; e questa fu pecuniaria: una forte multa applicata per il peculato di Lucio Scipione, come proconsole in Asia, il quale, ormai direttamente impegnato, ricusò di pagare la multa e di sottoporsi alla discussione. Apertamente trasgrediva la legge, e la legge poteva colpirlo col trascinarlo in carcere; soltanto l’intervento di un tribuno amico poté evitargli all’ultimo momento l’infamia dell’arresto.

L’azione politica, tenuto conto della personalità degli imputati, finì così. Publio sdegnato lasciò Roma per ritirarsi a Literno, dove morendo fece incidere sulla sua tomba: “ingrata patria, non hai neppure le mie ossa”; Lucio, rimasto solo e senza l’appoggio del fratello, fu facilmente eliminato dalle elezioni censorie e poi, durante la censura catoniana, rpivato persino del cavallo…

Agli ammiratori entusiasti di Scipione, poteva dispiacere questo atteggiamento astioso e invidioso di un uomo di parte che cova per vent’anni nel suo segreto l’odio contro il grande condottiero, tesse in silenzio la sua rete e non si dà pace fino a che non ha visto cadere l’avversario nella trappola da lungo tempo preparata. Poteva dispiacere questa mancanza di carità patria nel colpire l’uomo che aveva salvato Roma. Poteva dispiacere questo cane “latrante alla maestà dell’Africano”, il quale era invece degno, a giudizio d’Ennio, “d’esser cantato da Omero”, e tanto più da un redivivo Omero latino. Ma la caduta del maggiore Agricano fu una necessaria e dolorosa operazione, condotta da abili mani di un politico accorto, nel corpo vivo dello stato romano. Crudele come l’ostracismo degli Ateniesi, l’esilio volontario colpiva il più meritevole; ma liberava Roma da una soggezione e la preparava al risanamento. Il compito di moralizzare la società romana si delineava ormai più chiaramente con la imminente censura.

 

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