Carthago delenda est, come si costruisce una guerra
Nel 201, i cartaginesi, sconfitti, accettarono che non avrebbero più potuto muovere guerra senza il consenso di Roma. Quando, a partire dal 193, iniziarono a vedersi ripetutamente invasi da Massinissa, chiesero la mediazione del senato romano ma questo organismo tergiversò e in diversi casi diede ragione all’invasore, così Cartagine decise di difendersi senza autorizzazione romana, infrangendo il trattato del 201. Roma ne approfittò, andò lì e, sebbene a fatica, dopo tre anni, rase al suolo la città. Ad iniziare la martellante campagna militarista fu Catone il Censore culminata col motto “Carthago delenda est”.
In un giorno del 148 a. C., Catone, che era stato in missione diplomatica nel 152 a Cartagine, mostrò dei fichi al senato e chiese ai suoi colleghi se fossero freschi o meno. Rispose a tutti che il fico era stato raccolto meno di tre giorni prima a Cartagine, ovvero che il nemico era così vicino a Roma da minacciarne la sicurezza. Plinio commenta dicendo che quel gesto teatrale riuscì a convincere i romani a fare la guerra più di ogni argomento, persino più delle vittorie cartaginesi sul fiume Trebia, sul Lago Trasimeno ed a Canne. Tuttavia, nel 1984, in un articolo intitolato “Cato’s African Figs” (I fichi africani di Catone), lo studioso F. J. Meijer fece notare non era possibile compiere il viaggio da Cartagine a Roma, un viaggio di 270 miglia marine, in soli tre giorni. Quei fichi erano italiani, provenivano probabilmente dalle ville di Catone, ma questi li aveva spregevolmente usati per propagandare la guerra.
E interessante notare che, lo stesso giorno in cui Catone si presentò al senato coi fichi, un altro senatore, Scipione Nasica, che era stato anche lui partecipe della missione diplomatica del 152, parlò contro la guerra dicendo che non c’era nessuna causa giusta per un conflitto, che Roma sarebbe stata vista negativamente dal mondo se avesse attaccato i punici senza motivi e che Cartagine dovesse servire come “contrappeso di paura” per mantenere inalterata l’efficienza di Roma, intendendo che la minaccia di una potenza straniera era necessaria per mantenere la stabilità interna nei domini romani. E’ difficile dire se avesse ragione Nasica su questo ultimo punto, non mancano storici che lo asseriscano. Certamente, però, la guerra di Roma era stata costruita furbescamente da uno spregiudicato partito bellicista capeggiato in senato da Catone.
Fu Theodor Mommsen a sostenere per primo che Cartagine fosse stata distrutta per ragioni economiche e non per aver infranto il trattato del 201. Si rifece alle osservazioni raccolte dalla missione romana del 152, inerenti la rinata prosperità dei punici. Roma senza accorgersene stava diventando fortemente dipendente dai beni cartaginesi, anzitutto il grano. Cartagine era ritornata un centro commerciale fiorente e presto sarebbero pure scaduti gli obblighi del pagamento del tributo annuale e delle indennità di guerra stabiliti dopo la sua sconfitta. Quindi bisognava distruggerla.
Machiavelli fece un’altra riflessione di grande interesse. Cartagine era stata rasa al suolo non per ragioni diplomatiche, militari o strettamente economiche, ma perché se Massinissa l’avesse conquistata ed annessa ai massili della Numidia orientale, allora i numidi sarebbero divenuti inarrestabili. Egualmente era pericolosa l’alleanza tra Ariobarzane, nipote di Siface, re della Numidia occidentale, al cui sostegno avevano fatto ricorso i punici contro Massinissa. Cartagine, dunque, era stata distrutta perché gli interessi politici di Roma richiedevano di avere due stati deboli in Nord Africa o, in alternativa, un solo stato debole (Ursula Vogel-Weidemann, Carthago delenda est: Aitia and Prophasis).
Insomma c’erano ragioni e pretesti di tutti i tipi perché fosse mossa guerra. In ogni caso l’aggressione a Cartagine che si difendeva da Massinissa, si ribaltò clamorosamente in una guerra difensiva e giusta, tutto a riprova del fatto che le informazioni da sempre vengono alterate per mascherare i reali interessi imperialistici.
Autore articolo: Angelo D’Ambra