Carlo Piaggia in Equatoria. Un esploratore anticolonialista
Carlo Piaggia viaggiò nelle regioni più selvagge e inesplorate dell’Africa: isolato, completamente privo di appoggi esterni e dotato peraltro anche di scarsi strumenti culturali, Piaggia seppe comunque guadagnarsi un posto d’onore tra i grandi esploratori africani dell’epoca. Le sue memorie sono state pubblicate postume da Vallecchi solo nel 1941. Il suo viaggio e la sua permanenza tra i Niam-Niam (Asandé o Azande), nella regione di Equatoria, superarono per novità e ardimento ogni precedente, ma il Piaggia non ne aveva dato alcuna particolare importanza: l’esploratore tedesco Georg Schweinfurth non esitò a confessare di aver trovato negli appunti del Piaggia una guida alla sua spedizione del 1860-71. Dalla sua straordinaria avventura nel territorio dei Niam-Niam, Piaggia riportò anche una ricchissima collezione etnografica, che purtroppo non trovò in Italia una sede disposta a riceverla. Sarà sempre per il tramite di Schweinfurth che essa verrà ceduta al Museo di Storia Naturale di Berlino. Quando nell’aprile-maggio del 1858 Piaggia si inoltrò nella regione dei Niam-Niam, i Monbuttu gli offrirono in segno di dono un braccio umano affumicato! Piaggia descrisse anche l’usanza degli indigeni di bagnare i corpi con l’orina dei bovi e impolverandoli in seguito con la cenere. Usanza che venne descritta molti anni dopo anche dai fratelli Castiglioni quando incontrarono i Mundari in Sudan.
Piaggia, fin dal suo primo arrivo in Egitto (1852), fece tutti mestieri per sbarcare il lunario, dal giardiniere al cappellaio. Innamorato dell’avventura e supplendo alla sua carente preparazione, girovagò per tutta l’Africa orientale e centrale, senza aiuti e scorte, spesso da solo e armato di un fucile che usava per cacciare. Così facendo, penetrò in territori ritenuti inaccessibili e conquistando la simpatia degli indigeni, il tutto più con l’animo del missionario che dell’esploratore vero e proprio. Fu quella di Piaggia una figura, come l’ha descritta Antonio Romiti, “ai limiti del mondo”. Carlo Piaggia fu antropologo prima dell’affermarsi dell’antropologia. Ma soprattutto fu un viaggiatore autentico, pur senza essere né intellettuale né studioso. Visse per mesi tra i temibili guerrieri Niam-Niam, armati coi micidiali coltelli a lancio kpinga a più lame e di spade dalla lama ricurva. Anche questi guerrieri, all’occasione antropofagi, si dilettavano talvolta in gare di musica e poesia, suonando il kundi, una speciale arpa originaria del Monbuttu: segno evidente che proprio “incivili” non erano, e che amavano l’arte. Comunicavano inoltre tra loro attraverso complessi messaggi con i tamburi, percepibili nella foresta anche a chilometri di distanza.
Sandra Puccini si è, in particolare, dedicata allo studio dei primi esploratori italiani che entrarono in contatto con mondi altri, e ci riferisce che Piaggia, in fondo, fu semplicemente un uomo qualunque che si muoveva sempre sulla border line. Partì per l’Africa dopo che un’epidemia di tifo gli aveva sterminato la famiglia, e scegliendo come destinazione l’Africa, anticipò di una decina di anni il flusso esplorativo italiano verso il Continente nero. Antonio Romiti, presidente dell’Istituto storico lucchese, ritiene che la dote fondamentale di Piaggia sia l’umanità, che gli permise di comprendere gli indigeni africani senza farsi negativamente condizionare dagli schemi (limitati e parziali) del pensiero ottocentesco.
Il popolo dei Niam-Niam proveniva dalla Repubblica Centrafricana e forse anche dal Chad, e si stabilì a nord e in parallelo al fiume Uelle, affluente del Congo. Guidato da una casta guerriera, questo popolo era comunque privo delle preoccupazioni estetiche dei Monbuttu. La loro semplicità era come quella di una caserma: c’erano solo padroni e servi. Tutti i maschi venivano sottratti ai rispettivi genitori ed educati dai capi. Vennero a contatto con le zeribe, le residenze fortificate dei trafficanti di schiavi di Khartum, e in particolare col negriero Zubair pascià. I Niam-Nam all’inizio furono fermi nell’osteggiare questi negrieri, ma poi, credendo di poter sfuggire alla tratta, firmarono trattati: i capi concedettero in spose le figlie, entrando in un ingranaggio da cui non riuscirono più ad uscire. Nel 1878 la zeriba di Zubair pascià diventerà sede della provincia di Bahr el-Ghazal, e l’anno seguente gli Azande riconobbero la sovranità egiziana. Respinsero l’offensiva mahdista e in seguito anche i belgi, da cui furono tuttavia sconfitti nel 1896.
Dopo molti anni di vita africana oscura e grama, che gli forgiarono il carattere e gli fornirono la necessaria esperienza per affrontare viaggi davvero lunghi e rischiosi in quasi totale solitudine, tra il 1856 e il 1859 Piaggia risalì anch’egli il corso del Nilo, toccando territori selvaggi ancora praticamente inesplorati. Ebbe contatti con esploratori occidentali già noti, con commercianti di avorio, missionari e avventurieri di ogni risma e senza scrupoli che facevano capo a Khartum. In Italia e in Europa nessuno parlava ancora di lui. Solo nel 1868 il marchese Orazio Antinori, il capostipite degli esploratori italiani in Africa (e che a partire dal 1876 capofilò la “grande spedizione” nello Scioa etiopico) dedicò a Piaggia un articolo che fu pubblicato sul Bollettino della SGI, che era stata fondata solo l’anno prima.
Per tutta la vita Piaggia, in tutti i suoi scritti, manifestò con franchezza il suo sdegno contro l’infame tratta degli schiavi. Aborrì qualsiasi forma di violenza, e non risparmiò accuse anche contro i metodi utilizzati dagli antischiavisti, tra cui Romolo Gessi. L’espansione turco-egiziana nel Sudan, alla metà dell’Ottocento, aveva aperto la grande via navigabile che da Khartum penetrava nel cuore dell’Africa nera. Lungo questa strada arabi, egiziani ed europei praticarono il traffico dell’avorio. E quando i profitti dell’avorio cominciarono a scarseggiare, europei ed arabi iniziarono a costituire anche qui insediamenti per il traffico degli schiavi. Comboni e la sua missione cattolica giunsero in Africa centrale (Sudan) proprio quando questo turpe traffico era al colmo del suo sviluppo.
Piaggia era un uomo dall’animo semplice, e redasse un dialogo immaginario nel 1875, oggi conservato nei cosiddetti Manoscritti Torre. Si tratta di pagine assai singolari, attraverso le quali Piaggia sostenne che i rapporti tra “civili” e “selvaggi” avrebbero dovuto scaturire dalla coscienza della comune origine divina. In luogo della conquista brutale egli sostenne il processo della “persuasione”, nonché il profondo rispetto dei valori dello spirito e della vita umana. Arrivò addirittura a sostenere la superiorità del “selvaggio” sull’uomo “civile”. Temi tutti che lo avvicinavano allo spirito umanitario di Gaetano Casati e che saranno il filo conduttore, decenni dopo, della ricerca africana dei fratelli Castiglioni.
Piaggia si spense a Carcoggi, nel Sudan, il 17 gennaio 1882, durante un viaggio che aveva, comunque, voluto affrontare nonostante le pessime condizioni di salute, e tutti gli averi che aveva con sé erano la medaglia d’oro della Società Geografica Italiana, un libretto di conti e oggetti senza valore. Erano questi gli unici beni che avevano assunto un significato nella sua vita. Scrivendo il 10 gennaio 1882, ormai in punto di morte, al compagno di viaggi Schuver, con cui si era avventurato nel bacino del Nilo Azzurro, gli comunicò di essere ormai agonizzante ma ancora in possesso delle sue facoltà mentali. In questa ultima sua ultima lettera troviamo ancora tutta la generosità e disponibilità dell’uomo. Pur ormai in punto di morte, Piaggia si preoccupa dell’esplorazione dell’amico, e addirittura lo incoraggia.
Piaggia morirà di sfinimento proprio per i postumi di una delle sue tante imprese in cui mostrò tutta la sua disinteressata umanità. Rimasto a Khartum fino al luglio del 1880, preferì infatti rinunciare al denaro che gli era stato offerto dalla Società di Esplorazione di Camperio per fare da guida a esplorazioni altrui, ed ebbe in seguito l’invito della Società Geografica Italiana di risalire il Nilo Azzurro alla ricerca di Antonio Cecchi e Giovanni Chiarini, due componenti della “grande spedizione” africana capofilata da Antinori, che erano stati fatti prigionieri e confinati a Cialla dalla regina del Ghera. E per essere fedele alla missione affidatagli da tale Società, rinunciò a un “lucroso ufficio” offertogli a Khartum dal nuovo governatore del Sudan Rauf pascià, che voleva nominarlo modir (ispettore governativo) a Fascioda.
Partito da Khartum il 5 luglio 1880, nel Sennar incrociò una prima carovana lunga quattro chilometri con ben quattromila dromedari, e il giorno dopo ne vide altre due. Si trattava di un grande esodo di popolazione in fuga dalla mosca tse-tse. Solo agli inizi del 1881 Piaggia giunse con gravi stenti fino a Beni Sciangol, ma lì fu arrestato. Un funzionario locale dell’imperatore etiopico, Hasan Massaud, lo aveva descritto come uno “spione di schiavi pagato dal governo del Sudan”. Gli impedirono di proseguire. Solo nel marzo del 1881 fu liberato dopo aver sopportato durissime settimane di prigionia, e dovette rientrare. Hasan Massaud continuava invece nei suoi loschi traffici. Prometteva agli schiavisti di non denunciarli purché pagassero a lui le somme pattuite. Talvolta, dopo averle comunque riscosse, arrestava lo stesso i proprietari di schiavi per obbligarli a sborsare altro denaro.
In un momento in cui si sta scatenando una (irrazionale) caccia alle streghe anticolonialista, che si accanisce addirittura contro le statue, altera i fatti e le memorie storiche (e dove ognuno ormai dice quotidianamente ciò che vuole), ricordare la figura di Carlo Piaggia ci riporta ai primordi dell’esplorazione italiana, facendoci riscoprire valori che nel prosieguo dell’Ottocento vennero calpestati dallo scramble for Africa.
Autore articolo: Alessandro Pellegatta
Bibliografia: A. Romiti, Il viaggio in Abissinia di Carlo Piaggia (1871-1875); E. Rossi, Carlo Piaggia. Un antropologo prima dell’antropologia; A. Romiti, Carlo Piaggia (1827-1882). Un solitario alla scoperta dell’Africa, in Tiziana Fratini (a cura di), Carlo Piaggia e il suo viaggio tra gli Azande; A. Pellegrinetti (a cura di), Le memorie di Carlo Piaggia, Ministero dell’Africa Italiana
Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell’esplorazione. Tra le sue ultime pubblicazioni storiche ricordiamo Manfredo Camperio. Storia di un visionario in Africa (Besa editrice, 2019), Il Mar Rosso e Massaua (Historica, 2019) e Patria, colonie e affari (Luglio editore, 2020). Di recente ha pubblicato un volume dedicato alla storia dell’esplorazione italiana intitolato Esploratori lombardi.