Anni Sessanta, il fallimento dell’agricoltura

Nelle parole del giornalista Federico Orlando, nato a San Martino in Pensilis in Molise nel 1928, tutto il dramma del fallimento dell’agricoltura negli anni Sessanta.

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Negli anni Sessanta, mentre avviavamo il Mercato Comune, c’erano ancora la riforma agraria, lo spezzettamento delle terre, l’assistenzialismo, il disordine fondiario. Si tolse alle poche forze imprenditoriali operanti nell’Italia dell’ “osso” ogni stimolo a restare… L’antistoricità dei politici, che negavano ai laureati l’accesso ai mutui agevolati per la ricomposizione fondiaria (non avevano i calli nelle mani, ergo non erano agricoltori), si mesceva con quella dei sindacati, che si inebriavano nel chiamare “Braccianti” quei lavoratori che tutto il mondo chiama operai agricoli.
All’inizio degli anni Sessanta, due inchieste degli ispettorati agrari di due province agli antipodi – quella di Campobasso, in Appennino, terra di emigrazione, e quella di Forlì, parzialmente in pianura padana, terra di emigrazione – dicono abbastanza completamente come andarono le cose. Nel Molise si scoprì che su 50 agricoltori medi e grandi, forniti di titolo di studio abilitante a un esercizio professionale, benm 42 esercitavano una professione diversa dall’agricoltura… Degli altri 8, la metà erano in cerca di nuova professione e solo il 4% era dedito esclusivamente all’agricoltura.
In provincia di Forlì, l’inchiesta appurò che c’era un forte esodo di locali dalla zona montagna e una forte immigrazione di contadini dal Sud… La gente fuggiva davanti alla mancanza di tutto: strade, luce, telefono, medico, scuola. Ma i contadini che arrivavano nel Forlivese dal Sud, non andavano a riempire i vuoti aperti dagli agricoltori della montagna romagnola, bensì si concentravano nella pianura…
I mezzadri che avevano disertato i campi romagnoli – fu osservato – avevano abbandonato terre incapaci di retribuire il singolo lavoratore oltre le 120-130 mila lire annue. Ma nel Sud la stessa cifra rappresentava assai spesso il reddito globale dell’intera famiglia. Dunque, era lecito concludere così; la mancanza di politica per l’agricoltura nel Sud (a parte le cose male eseguite, come la riforma agraria e la legge per la montagna) spingeva anche i proprietari borghesi ad abbandonare la terra per dedicarsi ad altre professioni; la ritirata dei “grandi” veniva interpretata dai “Piccoli” come il segno inconfondibile della fine di un mondo; l’esodo puntava quindi alla conquista non di un mondo agricolo più ricco, che pure esisteva al di là della linea gotica, ma di un mondo alternativo, il mondo dell’industria e, soprattutto, poichè la fine del boom aveva ridotto le motivazioni del primo esodo (quello degli anni Cinquanta), il mondo dei servizi, dove l’ex contadino avrebbe potuto improvvisarsi commerciante, carrozziere, facchino, autista e altre cose e magari due o tre di queste cose. Così il reddito sarebbe stato sicuro e congruo, la camicia di cotone avrebbe sostituito quella di panno, e la donna sarebbe tornata ad essere la partner del maschio, che aveva respinto fino a quando aveva avuto le mani scure di terra e il “puzzo” di latte o di concime addosso.
A nessun governo, partito, sindacato venne allora in mente di aprire scuole di contabilità agraria per donne, come oggi si comincia a sussurrare, per motivare la donna in campagna, portare l’azienda agricola su basi di serietà professionale, consentire all’uomo di poter restare sulla terra senza subire lo smacco del rifiuto da parte della donna e la mortificazione sociale.

 

 

 

Fonte foto: dalla rete

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