Federico il Grande
Ernesto Sestan, in Federicus Rex, traccia un bel profilo di Federico II di Prussia.
Allora si creò la fama del “gran Federico”, gli anni non la scemarono, anzi la esaltarono, ne fecero, lui vivente, un mito europeo: l’eco se ne ripercuoteva fino alla lontana Sicilia, fra nobili paesani e modesti borghesi; giunto il Goethe a Caltanissetta, nel 1787, i maggiorenti del luogo gli si fecero attorno perché raccontasse del gran re; e davanti a tanto reverenziale interessamento, il poeta non ebbe il cuore di confessare che quel loro eroe era già morto, nella notte fra il 16 e il 17 agosto del 1786. Nulla valse a scuotere quella gran fama, né qualche ombra che si distese sulla reputazione del suo esercito, durante la breve guerra di successione bavarese, fra il luglio 1778 e il maggio del ’79, l’ultima che egli, non diremo, combatté, perché fu quasi incruenta, ma fece manovrare, ottenendo, tuttavia, gli scopi politici che si era proposto: l’eliminazione degli Asburgo dalla Baviera; né la partecipazione alla prima grassa spartizione della Polonia, nel febbraio del 1772, che gli portò la Prussia occidentale meno Danzica, cioè il ponte di unione fra i possessi centrali della Marca e la Prussia Orientale; spartizione che non suscitò allora il sentimento di scandalizzata riprovazione che si diffuse assai più tardi, nell’Europa ottocentesca, liberale e nazionale.
Né era solo ammirazione per il fulmine di guerra, per lo stratega geniale, per il riordinatore della cavalleria e dell’artiglieria prussiana, che conduceva a Potsdam, alle annuali manovre, il fiore degli ufficiali europei, quasi ad un’alta accademia di guerra. Né questa gran fama era solo ammirazione per l’amministratore accorto, riordinatore delle finanze dello stato, restauratore del benessere del paese, rovinato da sette anni di guerre; di tali regnanti, buoni amministratori, “padri del popolo”, l’Europa, paternalisticamente assolutista e filantropica di allora, poteva contarne più d’uno, né, del resto, in questo campo, Federico II fu innovatore geniale, proseguendo piuttosto le direttive già tracciate dal suo avo il Grande Elettore e da suo padre; anzi negli ultimi suoi anni, guardò con sempre più dichiarato disdegno il volgersi delle intelligenze a studi concreti di finanzia, di commercio, di agraria: “autori che non hanno mai visto né una nave né un aratro”, e vide in questo abbandono delle poetiche fantasie un segno di decadimento degli spiriti, del generale imbarbarimento; non solo per la Germania, per la cui letteratura egli non ebbe, si sa, alcun intendimento, come male ne parlava e peggio ne scriveva la lingua, ma anche per la Francia egli vedeva l’epilogo dell’età dello spirito: Voltaire ne era stato “l’ultima colonna”.
Né questa gran fama era solo ammirazione per il politico capace di tenere, aggrovigliare, districare una trama complicata dai molti fili; certo, egli fu, costantemente, il ministro degli esteri di se stesso, l’accorto manovratore su una scacchiera difficilissima, irta di pericoli e di insidie; ma egli non condusse mai quel gioco con il gusto piuttosto volgare, che è di molti politici, di mettere nel sacco l’avversario; furono per lui affari di stato, propri del suo mestieri di re, come tanti altri, e come tutti, condotti con senso rigoroso del dovere, con senso dell’ordine e della chiarezza, per il mantenimento dello stato. Perché quest’uomo che, pur accennando spesso al “paese ignoto del paradiso o dell’inferno”, non credeva, nel suo intimo, alla vita ultramortale dello spirito, credeva invece all’immortalità dello stato.
Né questa gran fama era, infine, solo ammirazione per il poeta e il filosofo: quanto alla poesia, Federico stesso si giudicava da se “un vieus rimailleur tudesque”, che avrebbe potuto passare per buon poeta, al più, in Russia. Scrivere, poetare, era per lui uno svago: “quando ho un momento libero, mi prende il solletico di scrivere; non so resistere a questo frivolo piacere, che mi diverte, mi distrae, mi rende più alacre al lavoro che poi mi attende”. E quanto alla filosofia, per quanto egli avesse buona conoscenza di filosofi sistematici, Locke, Leibnitz, Wolff, p chiaro che quella per cui egli si diceva filosofo, era sinonimo di “saggezza” empirica. I suoi autori erano gli antichi, Cicerone, Lucrezio, specialmente (conosciuto in traduzioni francesi, perché d latino egli seppe anche meno che di tedesco) e i Francesi del grand siecle; non Montaigne, per quanto ho visto; ed è strano. Quella “saggezza” voleva dire per lui, soprattutto, senso della misura, dell’equilibrio, dominio dell’intelligenza, gusto della vita e, insieme, senso disincantato della sua sostanziale vanità, passione per le cose e, insieme, distacco da esse. E’ in questo impasto personalissimo di personalità pura e impetuosa, di prorompente veemenza e vitalità, e, insieme, di intelligenza chiaroveggente, che si fa moderatrice e giudice dei suoi stessi impulsi vitali più profondi; è in quest’aspetto conturbante della sua personalità che già i contemporanei videro il segno della sua grandezza; le gesta di guerra e le azioni di pace non ne furono che la traduzione più manifesta sul teatro del mondo. Ed è questo che spiega il calore e la simpatia umana della sua personalità…